domenica 26 dicembre 2010

Di comfort, multi-tasking e rituali

Questa tendenza diffusa all’integrazione di molteplici funzioni su piattaforme o dispositivi integrati ed indifferenziati sembra derivare da un imperativo del comfort e della minima azione.
Comunicazione e informazione istantanee, intrattenimento multimediale, voci enciclopediche e molto altro sono sempre tra loro più vicini su questi supporti digitali, letteralmente a distanza di pochi click uno dall’altro. Perchè è più facile, prende meno tempo e forse meno denaro, occupa meno spazio, e si può praticare più di una attività allo stesso tempo e nello stesso posto, se si vuole.
Tale tendenza alla commistione delle funzioni tende ad affermarsi, sebbene non esclusivamente, sulla base di un abbassamento della soglia di preparazione richiesta agli utenti per farne uso. E’ fuori discussione che l’astrazione tecnologica dalla fisica all’informatica passando necessariamente per la microelettronica sia un bene sostanziale. La conseguente semplificazione dell’utilizzo – o meglio, la sostituzione e mascheratura degli specifici dettagli di funzionamento a favore di regole ed interfacce di utilizzazione intuitive, addirittura attraenti ed appaganti - di complicatissimi dispositivi ingegneristici frutto di anni di ricerca e di sperimentazione è un risultato potentissimo della moderna tecnologia (e che culmina una tendenza iniziata dagli albori della civiltà) nella misura in cui, proprio in virtù di suddetto abbassamento di soglia, utenti non specializzati possono rapidamente impadronirsi di strumenti che amplificano la loro produttività, permettono di aggiorarsi ed interagire su molteplici fronti, e sostanzialmente essere onniscienti. Al contempo, tuttavia, tale riduzione dei prerequisiti di utilizzo può indurre l’amplificazione dei comportamenti di evasione, l’infiltrazione di dati non filtrati (e il conseguente rumore informativo), ed un impoverimento del valore attribuito e del rispetto dovuto a quelle stesse funzioni che si cercano.
Viene cioè da pensare che l’apparente semplicità, di accesso od operazionale, di una funzione ne riduca implicitamente l’importanza percepita; e che questo a sua volta si manifesti in una riduzione della qualità dei contenuti veicolati e del tempo dedicato alla loro elaborazione e fruizione. Per dirlo in immagini: se si potesse scrivere ancora soltanto con lo scalpello sulla pietra, o se si potesse suonare soltanto organi a canne azionati a mano, con ogni probabilità si penserebbe molto più a cosa scrivere prima di sprecare pietra, o a cosa suonare prima di sprecare fatica manuale.
Su questa tendenza barbarica, come suppongo la definirebbe Baricco, si installa quella della sostituzione di una o al limite poche attività solide e ben corroborate con una moltitudine di attività minime, sporadiche e che richiedano periodi brevi di attenzione e concentrazione – le altre vengono semplicemente procrastinate. Questa seconda tendenza è quindi sugellata dal e favorita nel multi-tasking con la summenzionata giustapposizione a portata di pollice di tutto l’armamentario di funzioni richiesto per colmare la vacuità di pensieri e contenuti lasciata dalle precedenti. Del resto, proprio quando una funzione o attività è divenuta sufficientemente piccola risulta immediato pensare di accorparne (essendo possibile) tante di questo tipo in uno stesso strumento, canale, luogo contenitore. Ecco allora lo stuolo integrato e portatile di messaggi istantanei, presunte notizie, divertimenti, geolocalizzazioni e digressioni multimediali, in cui il rischio di omogeneizzazione e indifferenziazione del significato, e di travaso della trivialità da una attività all’altra è grandemente accentuato, se possibile fino a diventarne l’effetto unico sotteso a lungo termine – assieme all’isolamento indotto dall’illusione della connessione globale illimitata. Quando poi tutto questo tende eventualmente a diventare la routine di funzionamento normale del cervello, le cose diventano serie e sostanziali.
Con il multi-tasking mentale si cerca di replicare quello dei computer, che mostrano all’utente di svolgere più compiti nello stesso istante mentre in realtà li svolgono in rapidissima sequenza, previo spezzettamento in frammenti operazionali che vengono eseguiti in maniera alternata. Tendo a credere che una mente umana che non sia schizofrenica non sia ancora attrezzata a fare lo stesso – ammesso e non concesso che ne valga la pena; vale a dire, non penso che la mente possa cambiare rapidamente e ripetutamente di contesto lungo una sequenza di attività sostanzialmente diverse tra loro – a meno, per l’appunto, di non indurre qualche forma di avvicinamento, identificazione o banalizzazione tra le stesse attività: travasamenti di contenuto o significato, indifferenziazione della priorità e dell’importanza, stesso contesto mentale per tutte le attività, trivializzazione delle stesse. Con abbondante condimento di stress, straniamento, indistinzione tra reale ed artefatto, potenziale perdita di controllo ed atrofizzazione della creatività.
E tutto questo ancora e sempre in nome della minima resistenza all’azione e del massimo comfort, che rimuovendo limitazioni ed agevolando ogni opzione aumentano contestualmente l’ansia di fronte alle scelte.
In qualche maniera, radio e televisione avevano già accelerato un trend di commistione dei contenuti al loro comparire, proiettando notizie, pubblicità, intrattenimenti, cultura ed altro ancora dallo stesso supporto. Un mélange che, seppure non spazialmente, era quantomeno temporalmente coordinato (almeno quando a questi strumenti si dedicava attenzione piena); a differenza dell’omnipresenza spaziale e temporale permessa da Internet e le sue pervasive appendici.
Certo, quelle menzionate rappresentano soltanto manifestazioni di una amplificazione tecnologica di tendenze ataviche che, azzarderei, vedono nella riduzione dei tempi di accesso alle e dell’energia di attivazione delle funzioni e degli strumenti un vantaggio evolutivo per la specie – risparmio di energie, minor tempo di reazione di fronte a cambiamenti repentini di contesto. Senonchè, tutto ciò arriva ad assomigliare ad un regime metabolico da battaglia perpetua anche oggi, cioè quando, volendo, se ne potrebbe avere molto meno bisogno.

Per invertire tendenza e riprendersi un pò di tempo per se stessi, suggerisco, quando ed ove possibile o non strettamente necessario, di ridurre l’accorpamento indiscriminato di funzionalità nello stesso supporto, organizzandole ad esempio per aree semantiche, od utilizzando computer, smartphones e simili supporti multimediali per un task alla volta.
E soprattutto, riscoprire il valore delle procedure e dei rituali – come la lettura delle istruzioni, l'ordinamento degli ambienti, gli spostamenti tra ambienti, la scrittura della recensione del libro appena letto, chiusura e riapertura degli strumenti di lavoro, et similia – intesi come sequenze ordinate di azioni preparatorie che permettono la focalizzazione sulla prossima attività da svolgere mentre consentono un cambiamento di contesto graduale e ragionato. Dal punto di vista barbarico, sono delle evidenti perdite di tempo. Si tratta invece di occasioni intercalate di meditazione, porzioni sistematiche di tempo preso per la cura di sè: rallentano i ritmi, migliorano l’efficienza delle performance, aumentano la propriocezione e la consapevolezza del momento.
Nell’invitare alla lenta rimuginazione ed a non evitare le vie difficili o dolorose alle cose, Nietzsche (tra gli altri) potrebbe aver già gettato un’ombra su tutto questo.

mercoledì 15 dicembre 2010

Collettività emergente


Il comportamento della società, in quanto sistema collettivo complesso, emerge in larga parte 1) dal comportamento degli individui che la compongono, 2) dalle loro interrelazioni, e 3) dalle condizioni al contorno del sistema, storiche ed ambientali.
In una società civile, comportamenti, relazioni e contorni sono regolati da apposite convenzioni, a loro volta maturate da esperienze pregresse al fine di consentire la sopravvivenza e, se possibile, il benessere della società. In una società civile, le forme di espressione dei comportamenti e delle relazioni personali sono dunque definite e vincolate, ma non limitate, da diritti e doveri. Come direbbe Freud, con una erosione del piacere personale si ottiene quantomeno la possibilità di convivenza pacifica.
Il comportamento individuale, entro questi solchi normativi, può liberamente ispirarsi a qualsiasi ideale, o muovere da cause di forza maggiore. Nelle interrelazioni, invece, la cultura propria della società può veicolare una grande quantità di conoscenze, ed esercitare forme indirette ma assai efficaci di auto-controllo. In particolare, i soggetti umani possono (sempre più, sempre prima e sempre meglio) aver accesso ad informazioni globali sul sistema, sia nel tempo che nello spazio, oltre a quelle locali - che sono invece la norma in altri sistemi collettivi. In questo modo, le interrelazioni influiscono sul comportamento globale della società in quanto determinano in maniera sostanziale la condotta degli individui - che appunto, sebbene solo nel migliore dei casi, tendono ad agire in base alla soggettiva elaborazione delle informazioni di cui dispongono. In altri termini, e particolarmente nella società umana, l’informazione è veicolata dai legami interpersonali e incide sul comportamento individuale; e gli individui tendono ad avere la sensazione di tenere sotto controllo informativo, e talvolta di poter influenzare, porzioni arbitrariamente grandi della società (che diventa piatta, come direbbe Friedman).
L’informazione è centrale nel sistema sociale. La sua origine e la sua distribuzione sono collegati a possibili problemi o difetti, come gli idola specus, tribus e fori di cui parlava già Francis Bacon; per non parlare di cosa accade quando l’informazione apparentemente ad personam, capillare ed esondante come quella attuale è persino manipolata e/o in mano a pochi controllori. Al contempo, l’informazione è il solo mezzo con cui gli individui possono avvertire, quando è il caso, di essere parte di un insieme di agenti consenzienti più esteso della loro singola personalità, e dunque potenzialmente capace di azioni e rivoluzioni sociali che trascendono la durata e i mezzi di una singola esistenza.
Quando questa possibilità di identificazione e rappresentanza viene meno, la società civile e i suoi componenti scricchiolano. E lo stesso può accadere quando altre forme di espressione – anche cruciali, come il voto democratico - sono messe in discussione, o il loro valore apparentemente avvilito da esempi negativi e deprecabili. Si rischia di perdere la fiducia nella società stessa, nelle sue istituzioni, e persino di rompere il patto convenzionale che la regge.

Un recente intervento piuttosto amaro del mio amico Salvatore Privitera mi ha fatto venire in mente questo treno di pensieri. Con riferimento allo scandaloso recentissimo mercimonio di voti al parlamento italiano, Pazuzu arriva a definire per estensione la pratica del voto “un rito vuoto”. Un esempio sconcertante, quello del voto di ieri, di rappresentanza parlamentare deviata dall'interesse personale e irrispettoso del dovere istituzionale. La reazione che ha ingenerato, in Turi come penso in molti altri, mi pare infatti rappresentativa di una classe di comportamenti più generale – quella secondo cui l’uso miserabile, anche ripetuto, che alcuni miserabili individui fanno degli strumenti messi a disposizione dalla società (dal voto alla possibilità di protesta) debba irreparabilmente indurre uno svuotamento del loro valore (vedi gli effetti del mercimonio e delle violenze post-votum, rispettivamente). Si tratta di una percezione parzialmente condivisibile, se non giustificabile con lo sdegno personale di fronte a voltagabbana approfittatori e teppisti; ma che, secondo me, non deve progredire oltre lo stadio di percezione: sarebbe letale permettere a degli esempi negativi del genere di essere amplificati per imitazione personale, nella maniera in cui stimolassero altri a diffidare di quei mezzi stessi. E questo proprio in virtù delle proprietà dei sistemi collettivi.
L’imitazione è una forma di auto-controllo (o auto-determinazione) molto forte delle masse sociali: forma e muove opinioni, segna la memoria, induce abitudini e libera dalla fatica del ragionamento. E’ un meccanismo di amplificazione, che può dar luogo a fenomeni anche imprevedibili e di dimensioni relativamente grandi. Tuttavia, in molte società evolute o dai legami sociali o tradizionali molto forti, il controllo sociale interpersonale (nelle forme della decenza, vergogna, isolamento, ripudio) viene prima o è tanto potente quanto quello normativo. Polarizzare l’imitazione verso il peggio, o farla innescare dallo sconforto o dalla rassegnazione (per quanto ciò possa tentare), semplicemente non vale la pena – anche o soprattutto considerando quanto possa fare l’imitazione stessa se indirizzata nel senso corretto.

Forse con malcelata ingenuità (nella misura in cui qui non tengo conto dei presunti o acclarati poteri forti che tramano nella società), continuo a credere che fare bene il proprio dovere (comportamento individuale) e mettere gli altri nelle condizioni di poterlo fare a loro volta (interrelazioni), per quanto possibile, siano atteggiamenti (in cui includo la protesta e la disubbedienza civile, quando necessario) che meritano di essere praticati a prescindere, perchè consistenti e socialmente costruttivi in sè, tali da essere inalienabili ed inattaccabili anche da esempi della peggior risma. Peraltro, in molti casi non è dato al singolo di poter fare di più. Se poi anche i mezzi di comunicazione (condizioni al contorno) aiutassero a catalizzare il passaparola ed ad allestire la massa critica di buoni esempi, la società tutta ne gioverebbe sostanzialmente e più rapidamente.

giovedì 4 novembre 2010

La ricostruzione e il risveglio


Penso (sperando di esagerare) che a un certo, prossimo momento futuro in Italia accadrà questo.

Accadrà che l’ipnotizzatore perderà nominalmente, oltre che di fatto, il suo potere. E questo avverrà non per merito dell’opposizione parlamentare – che oltre ad essere stata inefficacie (salvo eccezioni purtroppo piccole) per quasi tutto il suo lungo periodo di dominio, non è riuscita neanche a canalizzare quell’opposizione politica, potente, proponente ed innovativa che anima una parte del popolo; bensì per l’affermazione definitiva e irreparabile di sue inconsistenze e incompatibilità interne, passi falsi, leggerezze ed esagerazioni, oltre che per via del ritorno - dopo un lungo letargo tinto di trasformismo e quieto vivere al potere - di qualche schieramento incarnante una vera destra politica non estremista - una destra normale, insomma. L’esperimento finalmente cesserà; l’addormentatore di coscienze, ridicolizzatore del paese agli occhi degli spettatori stranieri, e stupratore delle istituzioni e della legalità oltre che del semplice buon senso, crollerà di schianto non dopo aver cercato di portare con sè, nella sua irreversibile disgrazia, tutto il suo circo e i suoi tanti, proteiformi fenomeni da baraccone che lui vi ha installato, che da lui dipendono e/o che lui minacciano.
Dopo la sua scomparsa, emergeranno in contemporanea due tendenze di segno opposto.
Da una parte, la frazione sana della popolazione, strenuamente sopravvissuta al e non corrotta (se non in piccola parte) dal passato regime ipnotico avvertirà ancora più forte e palpabile, per contrasto, il disastro provocato dal lungo, tetro interregno: vedrà le macerie mentali del sistematico smantellamento culturale tutte intorno, si troverà a convivere con le voragini strutturali, materiali e finanziarie lasciate espandere senza controllo, a fronteggiare forze criminali viralmente diffuse nei gangli vitali del paese. Questa parte positiva sarà allo stesso tempo fortemente consapevole della necessità irrevocabile di ricostruire, lentamente ma tenacemente, quanto cancellato e dilaviato, e sarà volenterosa di assumersi la grande responsabilità storica di procedere in questa direzione.
Dall’altra parte, la grande frazione della popolazione, quella fino a poco tempo prima assorta nella e contenta della ipnosi, si troverà nella fase di risveglio post-ipnotico – e si tratterà per loro di una fase dolorosa anch’essa, ma invasa da quel dolore che prova chi viene svegliato da un idillio che credeva realtà, ma che invece dalla realtà scopre di essere assai lontano. La vedete ancora intorno, questa gente, nello stato ipnotico. Questa gente è cieca difronte all’evidenza dell’ipnosi, è lieta di regredire allo sfogo collettivo e canalizzato di sentimenti bestiali, è beata nella propria illusione, nel plagio, nell’esibire la proiezione delle proprie manie e dei propri desideri nella figura del gran capo, nella negazione dei gravi sintomi di recessione e collasso delle istituzioni e delle strutture del paese, nello svuotamento e re-invenzione del linguaggio quotidiano improntato al superlativo e alla connessa superficialità, nel perseguire uno stile di vita semplicemente insostenibile. Svegliandosi, questa gente sarà rabbiosa contro il nuovo governo che si troverà davanti, qualunque esso sia: perchè la sua rabbia nascerà dalla nostalgia di quello stato di trans collettivo, in cui era lietamente impassibile per ebetitudine di fronte ai problemi circostanti, e ben felice di farsi convincere della loro irrealtà dalle menzogne puerili quanto inconsistenti del vecchio capo. E in quello stato, questa parte cercherà in qualche modo di tornare.
Periodi di coesistenza di queste opposte tendenze, forse sotto altre sembianze, sono probabilmente già apparsi in passato. Questa giustapposizione darà luogo, come allora, ad una profonda lacerazione interna al paese - che si rimarginerà solo a lungo andare e nel mentre rallenterà e ritarderà, quando non atrofizzerà completamente, le opere di restauro e ricostruzione.
Questa lacerazione è stata già incisa dal vecchio capetto nei suoi sudditi. E quando lui scomparirà e il suo folto entourage si dichiarerà immemore e mai di lui frequentatore nè sostenitore, questa ferita sarà il retaggio più duraturo e ignominioso del suo dominio sul paese.

martedì 21 settembre 2010

Sulla teoria ultima - parte 2: necessità


Mentre si lascia lo scenario aperto ad ogni possibile evenienza riguardo alla possibilità di esistenza di una teoria ultima, qui si intende rispondere negativamente all'interrogativo sulla sua necessità.
Ritenere che una teoria ultima non sia necessaria può sembrare paradossale di primo acchitto: in fondo la scienza - e, più in generale, la conoscenza - è mossa dalla ricerca della spiegazione ultima del mondo, così come lo è (stata) l’attività quotidiana degli scienziati e di ogni sapiente di ogni tempo.
Io sostengo tuttavia che, lungi dall’essere contraddittoria, una (cono)sc(i)enza consapevole della non-necessità di una teoria ultima possa essere metodologicamente più efficiente e coerente con il suo ideale di perfettibilità - pur a rischio di risultare più fragile rispetto alla accezione che la associa ad una missione con scopo predeterminato.
Sia chiaro: la non-necessità di una teoria ultima non ne esclude l’eventuale esistenza nè l’eventuale conoscibilità. Quello che ritengo necessario è piuttosto il divenire continuo e permanente del percorso conoscitivo (soggettivo ed individuale, e poi collettivo), non la sua fine. Attendendo serenamente e con favore di essere smentito dal venire a conoscenza della dottrina ultima, tendo intanto a pensare che ogni teoria (corretta) proposta sia un traguardo temporaneo, e il cui grado di perfezione o ultimità percepita sia proporzionale al costo (intellettuale e/o finanziario) che la teoria ha richiesto per essere sviluppata o che una sua successiva sostituzione imporrebbe.
Questa posizione è certamente improntata allo scetticismo, tuttavia nella forma e accezione del dubbio metodologico perenne (che porta a estreme conseguenze), e non certo in quella di un pessimismo negli intenti, nelle risorse e nelle capacità delle imprese conoscitive (di qualunque tipo). Del resto, nel divulgare questa mia personale visione, non la sto certamente imponendo, ma sto altresì rifuggendo dall’invito socratico a neppure mettere per iscritto qualsiasi idea, al fine di evitare a priori la tentazione a cristallizzarla. Piuttosto, concordo con l’osservazione che il cammino della conoscenza è punteggiato di carcasse abbandonate lungo la strada.
Ho l’impressione che la perfezione (nel senso di compimento definitivo) attribuita a una teoria verrà sempre da qualcuno ritenuta transeunte e meritoria di essere valicata - più sintomo di stasi, di pigrizia se non di morte intellettuale che ontologica – e ammantata di arroganza intellettuale, anche a prescindere dalla (necessaria) dimostrazione sperimentale / empirica / fenomenologica. Una teoria ritenuta perfetta sarà sempre sospettata da qualcuno di essere il risultato almeno parziale di una adequatio rei ad mentem piuttosto che una completa adequatio mentis ad rem. Al contempo, l’autore della teoria sarà sospettato di essersi arreso ad un certo qual punto (pur eccelso), vuoi per amore estetico della sua teoria (viene da pensare ad Einstein), vuoi per il desiderio di metterci un punto e di godersela nel riflesso altrui, vuoi forse per il potersi dire di essere giunto (magari in fin di vita) a qualche cosa di non nullo, o chissà per cos’altro. Insomma, per tutti questi e forse per altri motivi, penso che qualcuno non sarà mai indotto a smettere di cercare di demolire la supposta teoria definitva del momento per far posto ad una nuova e migliore – sebbene la ragione più profonda di questo incessante intento sarà probabilmente soggettiva e psicologica.
Perchè il percorso conoscitivo, e la comprensione del suo valore e della sua necessità, sono (e forse rimarranno) conquiste individuali imprescindibili. Ciò che le alimenta è la sensazione di divenire e di ascesa che le accompagna, la tendenza all’accrescimento e alla maturazione – di fronte a cui l’idea della terminazione è ostica se non priva di senso.
Similmente, non credo sia utile cristallizzare nè tantomeno imporre una qualsiasi dottrina (sebbene già Plank osservasse, e Kuhn spiegasse, che le teorie e i paradigmi si succedono come le generazioni, cioè sulla base della morte degli esponenti delle precedenti). Piuttosto, quando una teoria è affiorata nella sua supposta coerenza e completezza, ci si deve limitare a proporla e criticarla, a renderla disponibile ad altri come suggerimento non vincolante e possibile tramite (tra i tanti) verso una eventuale illuminazione individuale; e non, invasati dalla rivelazione, farne mezzo di plagio forzato (specialmente se di massa, come nel caso dei profeti e le corrispettive religioni). Si pensi, per questo, alla differenza tra Gesù (reale o fittizio) e Paolo di Tarso. Forse è per questo che (per quanto ne so) quasi nessuno dei grandi saggi di ogni tempo ha mai imposto le sue vedute (nell’esempio di prima, fu Paolo ad imporre il cristianesimo, non Gesù), con l’eminente eccezione parziale di Marx (e dei suoi epigoni), che di fatti incarna pregi e difetti della dialettica tra teoria e praxis – delle ripercussioni materiali e rivoluzionarie di strutture di pensiero ideali.
Del resto l’uomo sinottico - di cui parlava Platone nel suo mito della caverna - una volta presa visione (personale) della realtà supposta vera, torna nella caverna ed illustra la sua visione agli altri. Nel limitarsi ad illustrare e nel non costringere, egli lascia intatta la libertà altrui, premessa dell’integrità e dell’autenticità del loro cammino.

Sulla teoria ultima - parte 1: possibilità


In ambito fisico, dal secondo dopoguerra in poi - a partire forse dall’attenzione riservatavi nei suoi ultimi anni di ricerca da Einstein - si succedono speranze, invocazioni o veri e propri annunci del ritrovamento di teorie del tutto, che nella accezione dei fisici dovrebbero dischiudere l’onniscenza sull’intero mondo fisico all’uomo. Senonchè queste teorie riguardano soltanto le particelle elementari. Dunque si basano su assunti di riduzionismo e materialismo estremi: conoscendo le leggi ultime che disciplinano le proprietà di e le interazioni tra le particelle elementari, sarà data automaticamente la conoscenza del mondo fisico nella sua interezza di dimensioni – perchè le particelle elementari spiegano la fisica tutta, la fisica spiega la chimica, la chimica spiega la biologia, la biologia spiega l’ecologia, e proseguendo questa spirale ascendente di sapore vagamente hegeliano si espanderebbe a includere ogni aspetto dell’esistente.
Può anche darsi che sia così. Tuttabia, tale programma di ricerca, emblematico della big science – che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso si fonda sul Modello Standard, e sembra (da poco tempo dopo) essersi ingolfato nei funambolismi e avviluppamenti matemagici della teoria delle superstringhe – potrebbe essere messo in difficoltà da altre discipline scientifiche; per esempio, da quell’insieme eterogeneo e sinergico di concetti e metodologie collettivamente chiamato (scienza della) complessità, che dimostra ormai da tempo come anche sistemi apparentemente semplici di enti interagenti posso dar vita a fenomeni a priori imprevedibili e di grande contenuto informativo. D’altra parte, per rispondere all’interrogativo di sopra qualcuno potrebbe anche citare (probabilmente a sproposito) i teoremi di incompletezza di Gödel e di indecidibilità di Turing; oppure Hawking, che dedicò all’argomento la seconda parte della sua lezione (Nascita del tempo e fine della fisica) di insediamento sulla cattedra di Cambridge che fu di Newton, nonchè la conclusione del suo Dal big bang ai buchi neri. In quest’ultimo (libro divulgativo), egli prende in considerazione tre scenari possibili per la teoria del tutto: la teoria non esiste e la scienza prosegue ignara di brancolare nel buoi; la teoria esiste e gli umani si avvicinano asintoticamente alla sua conoscenza; la teoria esiste e gli umani la scoprono (e si suppone che la comprendano), nel qual caso non resterebbe che definirne i dettagli e poi semplicemente vivere, sapendo di essere entrati nella mens dei (si spera spinoziano, vale a dire sive natura) – e, si potrebbe aggiungere ora, dedicandosi finalmente (solo) al lato construens (o, con termine abusato, olistico) della scienza. Roba forte la terza via, ma contraddistinta da una certa connotazione di tristezza - che forse è semplicemente intrinseca all’idea di terminazione dell’impresa scientifica (riduzionista) e di fine in sè – e di già visto.
Si, perchè questo non deve ingannare: la fine della fisica è stata anch’essa ripetutamente predetta e sancita nel corso degli ultimi decenni, a partire da un secolo prima della lezione di Hawking. Era infatti sentimento comune e palese alla fine del XIX secolo che in fisica non mancasse da fare altro che definire la quinta o sesta cifra decimale delle grandezze già note. Tutto sembrava già fatto, spiegato, compreso, evidente, a posto. Ma si trattava, di un’illusione imbarazzante, perchè da li a poco dovevano figurare Roentgen con i suoi raggi X, Becquerel con le sue lastre fotogragiche impressionate al buio, Plank con il suo quanto di azione, Nernst con il ruolo attivo e non-locale del vuoto, i fratelli Wright con i loro (veli)voli impossibili, Einstein con le sue relatività, i già citati Gödel e Turing con le loro risposte negative ai rispettivi quesiti di Hilbert, Fermi con le sue pile atomiche, Feynmann con la QED e Gell-Mann con la QCD, Lorenz con il suo attrattore strano, Salam e Weinberg con l’unificazione elettrodebole, Preparata e Del Giudice con la QED coerente – e solo per citarne alcuni!
Per quanto detto, viene da pensare che oggi la situazione possa essere un ricorso di quanto già occorso – sebbene entro condizioni al contorno inevitabilmente diverse. In particolare, oggi non domina più l’atteggiamento positivista di Comte e Mach, in voga alla fine dell’800 e di per sè autolimitante nei confronti del progresso della scienza oltre i confini dei sensi umani – e che infatti fu eluso ben presto da tutti, sulla tragica scia di Boltzmann. Al contempo, la big science è sempre più onerosa; alcuni scienziati sono diventati miti intoccabili, e le loro teorie approcciate con reverenza quasi dogmatica o fideistica; e in alcuni ambiti si avverte un certo conservatorismo e fazionismo di ascendenza extra-scientifica. Ad accomunare le due epoche è però la superstizione di un certo integro-fondamentalismo di matrice religiosa, ancora ignorantemente shockato dalla sconfinata recessione del posto e del ruolo dell’uomo nell’universo, e geloso dei progressi scientifici che insidiano le sue derelitte teorie – oh si, i fondamentalisti religiosi si, che possiedono (e da quanto tempo!) la conoscenza definitiva!
Tuttavia, il tempo sta accelerando, sempre più.

venerdì 17 settembre 2010

L'arte della sensualità


Si sente spesso parlare di sensualità dell’arte. Riflettendoci, penso che ciò celi una sorprendente discriminazione. Ma anche che ci sia un sempiterno esempio.
Tutte le arti si rivolgono a un numero limitato di sensi, e comunque non li soddisfano certamente tutti allo stesso modo. Tutte si rivolgono, in un modo o nell’altro, alla mente, ma si concentrano su e sono veicolate massimamente da vista e udito. La cucina, certamente una forma artistica di chimica, si occupa del gusto.
E per il resto? Chi si dedica all’olfatto e al tatto?
E’ vero, si da il caso di concerti in cui essenze diverse venissero dissolte nell’aria in corrispondenza di opportuni brani (mi dicono che l’abbia fatto perlomeno Jovanotti). E certo entrare in profumeria, sniffare colla o benzina, o maneggiare compost organici può fornire soddisfazioni erotiche o regalare piaceri anche intensi. Ma cosa fare per il tatto?
Bisognerebbe forse chiedere a chi legge in Braille cosa si aspetta per opera d’arte ideale? O andare a tastare tutte le tele del mondo per scoprire il pittore che aveva il tocco migliore? O pompare gli amplificatori sempre al massimo per essere scapigliati e cappottati dalle casse degli impianti di diffusione?
Io guarderei più vicino. E penso che l’arte sensualmente più completa ed appagante sia: il sesso.
Visioni, auscultazioni fruscii ansimi grida, odori, gusti, palpatine massaggi strusci sfregamenti baci; geometrica complementarietà e compenetrazione dei corpi; armonia di forme e di ritmi; coinvolgimento e sconvolgimento di segreti e secrezioni.
Roba da dio.

giovedì 16 settembre 2010

Leggerezza fondata


Preludio:
leggendo le sue Lezioni Americane, si ha quasi la sensazione che li Calvino abbia finalmente svelato l’armamentario di impalcature, strutture, tecniche e metodi accumulati nel suo artigianato, e dato l’idea di quanto lavoro abbia richieduto raggiungere la leggerezza (di cui parla in una celebre di quelle lezioni) che si manifesta nel suo stile letterario. Perchè Calvino si prendeva sul serio.

La leggerezza nella sua forma più sciatta e sterile si compone di pura superficialità, sradicata e fragile. La leggerezza è invece molto più interessante e rivelatrice quando scaturisce dalla convinzione di sè e nei propri mezzi. Con semplice bisticcio, bisogna saper leggere la leggerezza.
L’adozione sistematica ed imprescindibile di uno stile di scrittura perentorio, assolut(istic)o, necessario ed universale, e pertanto di solito pesante, saturante e ostico, che non lascia nulla all’immaginazione o all’interazione del lettore, bensì la costringe inappellabilmente entro strutture anguste di una rigidità parossistica – questa scelta, per l’appunto, rivela probabilmente un desiderio di proporre a se stessi una disciplina vincolante ed egemone, con l’augurio che essa aiuti a mascherare, confortare e consolare irrequietezza, instabilità, inquietudine, scarsa convinzione ed insoddisfazione di fondo. Di fronte a simili gabbie autoimposte si ha l’impressione di assistere ad un tentativo di far fronte alla dissoluzione o al deliquio della personalità, persa tra timori e conflittualità.
La stabile sicurezza conseguente al raggiungimento della convinzione in sè (in una parola, la maturità) permettono un ritorno alla leggerezza dello stile e degli atteggiamenti più in generale, ora riempiti di confidenza e fondati su basi più solide, per quanto e ancora in divenire. Questa leggerezza coesiste, interagisce e si alimenta con la consapevolezza d’ignoranza personale, la curiosità e il dubbio metodologico. Abbandonata la coazione all’oppressione, si preferisce alludere ed indicare soltanto, senza curarsi di otturare tutti gli spazi – e non perchè si abbia paura di non saperlo fare. Si possono finalmente accantonare e riscattare quelle angoscie e vergogne che, se pure sussistenti, dovrebbero essere materia di lavoro personale, ma che invece venivano proiettate sul destinatario nell’intento spasmodico di celarle. Con la leggerezza trasformativa di cui parliamo si possono far sedimentare tutti quei fardelli – si possono lasciare sul fondo per tenere ancorato il nostro bel aquilone.

Leggere con cautela


Non si deve leggere indiscriminatamente!
Anche se morsi dalla curiosità o dalla lussuria, così facendo si rischia di leggere le cose (giuste o sbagliate che siano) al momento sbagliato.
E questo non è consigliabile, perchè si potrebbero scoprire le soluzioni a dei quesiti (pratici o intellettuali, fisici o metafisici) che magari si sarebbe prima dovuto - o quantomeno voluto - risolvere da soli, senza aiuti. Ed anche perchè si potrebbe, altrettanto pericolosamente, essere indotti a credere che quelle soluzioni siano le uniche o le migliori (cosa non raramente falsa), e con questo a credere che non valga più la pena porsi quelle domande, tanto tutto è stato già detto e fatto (illusione devastante!). Ed infine, perchè si rischia di aver accesso alla formulazione stessa di quesiti per i quali non si è ancora pronti (perchè non si è in grado di comprenderne la rilevanza o di porli nella prospettiva o nel contesto più adatti, o perchè la nostra personale catena di ragionamenti ed interessi non ci ha portato in quelle zone del paesaggio mentale). L’avanzamento della personale ricerca intellettuale dovrebbe essere graduale e disciplinata, mossa eminentemente dalle percezioni individuali (di sè, del momento e del contesto).
Questo per quanto riguarda la saggistica, compresa la letteratura impegnata. Altro discorso, coerente col precedente, vale per la letteratura non impegnata di puro intrattenimento (con rispetto parlando), che in questo ambito associerei per analogia alla mollica del pane, o al sorbetto che si gusta durante i grandi pasti per separare le varie portate principali.
In questo caso, mangiare senza criterio e in quantità eccessiva rispetto alle proprie necessità e addirittura oltre le proprie possibilità, soltanto per inerzia o per non restare senza far nulla (cioè, fuor di metafora, senza avere nulla per la testa), è un comportamento ozioso e pigro, che sazia di tutto fino a saturare il desiderio e al contempo impedisce di gustare e assimilare le singole vivande come meriterebbero. Imbottirsi soltanto di mollica o di sorbetti rende sazi di poca sostanza. Si dovrebbe invece preferire una assunzione moderata e strategica di mollica e sorbetti, allo scopo di intervallare le porzioni principali del pasto (intellettuale) e coadiuvarne la corretta digestione e assimilazione.
Anche qui, serve un buon filtro.

mercoledì 15 settembre 2010

Colui che fece girare le sfere


Con la scoperta di quello che poi sarebbe stato chiamato primo principio della dinamica, Galileo iniziò a far girare le sfere. Secondo codesto principio, un corpo (celestre o terrestre che sia) persiste nel suo stato di moto finchè una causa esterna non interviene a modificare tale stato. Questo significa (con tripudio eracliteo, e molto prima che ciò venisse riscoperto e sottolineato dalla meccanica quantistica, in un contesto completamente diverso) che lo stato di quiete di un corpo non è necessariamente il suo stato naturale: la quiete è un caso speciale di moto un corpo, ovvero un moto con velocità (e accelerazione) nulla – un’eccezione, più che la regola. Questo spazzava via millenni di legge aristotelica, peraltro in una maniera piuttosto contorta (perchè l’empirismo e il materialismo dei lavori galileiani era considerato di ascendenza aristotelica; senonchè poi Galileo giunse alla sua conclusione attraverso un ragionamento asintotico (non riuscendo a eliminare praticamente tutto l’attrito nei suoi esperimenti) che lo fece sfociare in un ambito meta-fisico, più prerogativa del platonismo).
E fece gagliardamente girare le sfere - in senso cosmologico e figurato.
In senso cosmologico, il principio confutava di per sè, in sostanza, la necessità stessa di un etterno motore primo immobile, ovvero di quella sfera celeste esterna alle altre e sede del sommo manovratore, la quale, sebbene supposta immobile (per tradizione oserei dire parmenidea), purtuttavia innescava causalmente il moto delle sfere interne a cui erano appesi i pianeti rotanti attorno alla Terra.
Questo sconvolgimento della scenografia celeste costituiva allo stesso tempo un gran giramento di sfere per l’ortodossia cattolica egemone al tempo, che faceva della dimostrazione tommasea (di matrice ancora aristotelica) ex motu uno dei cardini dell’esistenza del suddetto manovratore. Quella lesta dimostrazione - e per estensione tutte le altre ad essa somiglianti tramite inversione (vedi la ex fine) o altre simmetrie - veniva dal nostro tacitamente privata di fondamento. E ciò avveniva ancora prima che tutte queste dimostrazioncine venissero letteralmente annichilite dalla confutazione humiana del principio stesso di causalità.
Su questa base clamorosa si può aggiungere quel che è più noto - e che fu formalmente punito dal porporato (non di vergogna, ahimè) Bellarmino – e cioè che poi quell’eversivo di Galileo appoggiò di peso la teoria eliocentrica (nonostante fosse anche un buon astrologo!), presentata da Copernico e già avallata da Keplero. Ma mentre il (sapientissimo ed esoterico) Keplero era considerato certamente un ganzo ma sui generis (sapete, lavorava a Praga per Rodolfo II, il re invasato per l’alchimia, insomma non si poteva prendere molto sul serio ecco...), il consenso di Galileo all’astronomo polacco fu problematico. Innanzitutto, era geograficamente più vicino; poi, era cattolico (quanto Keplero e tutti gli altri, del resto); e soprattutto, dava inizio a quella che è stata definita a posteriori la rivoluzione kepleriana della scienza. Essa si basa sul seguente, temibile assunto: se un modello matematico si dimostra capace di descrivere con precisione un fenomeno naturale, allora esso rappresenta una legge che pertiene de facto alla natura, cui cioè la natura stessa obbedisce. Ovvero, se un tale modello esiste, esso di per sè deve essere ontologicamente vero. Mentre la rivoluzione copernicana fu eminentemente cosmologica (e sarà emulata da Kant secoli dopo in campo gnoseologico), quella kepleriana fu filosofica prima che metodologica. Con essa si attribuiva valore di verità fondamentale e sostanziale alle scoperte empiriche, e divenne un caposaldo della nascente Scienza in senso moderno.
Si può sospettare che questo impietoso spodestamento del nos diximus a favore di una costante e progressiva sostituzione di modelli vigenti e perfettibili, assunti al livello di leggi temporanee di natura, sia stato l’elemento dell’attività di Galileo filosoficamente meno tollerabile da parte dei teologi cattolici. Che ancora sognano di tornare all’epoca in cui la loro esclusiva loggia dettava legge.

Il salto e la fase pseudo-construens


Da Socrate (e forse anche da prima) fino a Hillman - passando per Spinoza e innumerevoli altri liberi indagatori, e accompagnati da buona parte della tradizione massonica non deviata (di cui si può trovare una soprendente apologia nell’ultimo romanzo di Dan Brown) - risuona il sempiterno richiamo (una sorta di filosofia perenne, per parafrasare Huxley) a conoscere se stessi (know ye not that ye are god) come condizione imprescindibile di ogni percorso di maturazione individuale e di accesso ai poteri latenti del corpo umano. Un percorso tradizionalmente articolato in una fase destruens ed una successiva fase construens.
Ritengo tuttavia che l’innesco di questa dinamica interiore presupponga un precedente salto da parte dell’individuo – una intuizione, una illuminazione spoliativa, una comprensione pur breve ma impressionante del sè nudo e auto-sufficiente - che mostri in un baleno il percorso a venire e ne illustri la necessità. Questo salto individuale è un moto di emancipazione, preludio a una rigenerazione - scaturito dalla realizzazione che finora si è partecipato a una costruzione della propria personalità fittizia, probabilmente fallace o arbitraria, perchè avvenuta in buona parte a propria insaputa, passivamente, e non coerentemente con il nucleo fondante e motore della persona. Si tratta di un salto, perchè esso muove, forse per la prima volta, tutto l’individuo nella sua consapevole interezza; perchè presuppone una rivisitazione e se necessario un abbandono della propria esperienza passata; e, soprattutto, perchè non può, con ogni probabilità, essere impartito o insegnato dall’esterno, ma spunta spontaneamente e in forma esclusiva dall’interno. E’ il salto che mette fine a quella che, per questo, chiamo la fase pseudo-construens.
Questo balzo permette di prendere distacco dagli insegnamenti ricevuti, e di comprendere che si da una esistenza autonoma e indipendente anche, o soprattutto, a prescindere da essi. Contestualmente, si afferra la salutare necessità di criticare (in senso kantiano) l’insieme eterogeneo di dottrine, pre-concetti e automatismi di cui siamo stati dotati e che abbiamo ricevuto - culturalmente o geneticamente – in modo involontario, passivo e acritico. Questo ammasso di pre-giudizi va setacciato e vagliato scientemente – confermato perchè con ogni probabilità si è stagliato finora a separare l’individuo dal suo nucleo fondante. Tale sondaggio interiore – un esercizio progressivo, disciplinato e permanente, ed esclusivo del singolo individuo così come il suo esito specifico - costituisce la successiva fase destruens – dove tanta parte può svolgere l’ironia. Con essa si arriva a comprendere che l’eredità più duratura e preziosa del nugolo di materiali assunti in passato risiede, soprattutto, nella rete coerente ed auto-sufficiente di strutture, relazioni, dinamiche e pattern - spesso soltanto implicite, intuitive ma evidenti, piuttosto che esplicite, codificate e cristallizate – che l’individuo con la sua sensibilità ha afferrato tra le righe, che all’individuo affiorano dopo lenta maturazione e assimilazione. E forse non c’è altro modo attraverso cui questo possa avvenire – se non una illuminazione personale.
Il superamento della fase pseudo-construens si innesca con la presa consapevolezza di come quei materiali iniziali e lontani siano serviti soltanto da pretesto, introduzione, cavallo di Troia, lasciapassare o forse scusa per veicolare - senza che sia rigettata nel contempo – quella eredità di cui l’individuo si trova ora a disporre; e di come l’utilizzo effettivo ed indipendente di questa conoscenza – un tesoro inviolabile ed inalienabile - si possa attuare a prescindere da loro.
Solo sulla base di questa opera igienizzante e purificatrice si può e si deve poi cominciare ad erigere ed innalzare – spontaneamente e liberamente, cioè secondo gli autentici dettami della nostra natura ritrovata. Solo a questo punto si potrà parlare di vera fase construens.

Migliaia di (per)s(on)aggi prima di me (e incomparabilmente più evoluti) hanno trasmesso questo semplice messaggio – sebbene esso, per l’appunto, non sia comprensibile se non attraverso esperienze interiori, uniche ed esclusive, e dunque non indottrinabili dall’esterno (ecco una chiave dei paradossi della tradizione buddhista). A minima riprova (ammesso che lo abbia capito veramente), anche a chi scrive sono occorsi 28 anni per arrivarci.
Questo evidentemente non deve far desistere dal tentare di trasmettere il messaggio. E personalmente, sarebbe stato preziosissimo se lungo la mia strada giovanile avessi incontrato qualcuno che si fosse prestato o degnato a instillarmi almeno il sentore e il dubbio di queste cose. Sto contestualmente invocando, in compagnia per esempio di Nietzsche, l’importanza cruciale della giusta educazione al giusto momento. Un’istruzione solamente nozionistica è deleteria, perchè rischia di ingenerare dogmatismo e atrofizzare lo spirito critico. L’istruzione dovrebbe essere invece soprattutto seminale. Non credo di andare lontano dal bersaglio nell’affermare che i maestri ideali, o quelli che ci segnano e ci rimangono più impressi, sono quelli che riescono a spingerci, in qualche maniera, verso il nostro nucleo fondante. E’ già meraviglioso poterli avvicinare per mezzo delle loro opere scritte – figurarsi in vivo.

giovedì 3 giugno 2010

Contro il rumore

[NB: Post aggiornato dopo la pubblicazione originale]

La nostra civiltà è ancora troppo rumorosa.
Ed il rumore logora.

E’ vero che un’aggiunta sapiente di rumore può inaspettatamente aiutare nel trattamento e detezione di segnali [Kosko], che lo stato fondamentale della materia è vivo e dinamico, e che dal brulicare inesauribile delle pulsioni risorge la creatività [Nietzsche].
Ma a lungo andare, vibrazioni incontrollate applicate constantemente a strutture meccaniche le logorano portandole a perdere la loro funzionalità, alla distorsione e infine alla rottura. Una di queste strutture delicate quanto meravigliosamente sensibili sono i nostri apparati uditivi, dove inoltre il logorio meccanico si accompagna ad un anche più grave logorio nervoso – sebbene un costante sottofondo musicale sia benvenuto da molti come antidoto alla noia e per sopportare tempi morti. E questa, ovvero la versione acustica e meccanica, è soltanto l’anticamera della forma di rumore più nociva: che è quel pasticcio dissonante e sterilmente confuso di annunci, istantanee, prolusioni avventate, dicerie, voci di corridoio, sentenze di persone stanche o vanitose che affollano fino a saturarli i canali informativi attuali – nel nome dell’essere aggiornati.

La facilità di accesso agli eventi, di contatto diretto interpersonale oltre le barriere spazio-temporali e di condivisione che strumenti mass-mediatici in costante evoluzione, espansione e semplificazione permettono è prodigiosa e benvenuta. Senonchè occorre mettersi in guardia da un suo uso degenere, che almeno in parte ha origine dall’induzione compulsiva all’aggiornamento.
(Mi) Aggiorno, dunque sono: controllo la posta in arrivo che ti pare che nessuno mi ha scritto nell'ultimo quarto d'ora, aggiorno la lista dei miei “amici”, aggiorno la home page del mio quotidiano per gli ultimi flash di agenzia, aggiorno il mio blog con una mezza ideuccia che mi è venuta che non mi pare male anche se non è granchè ma chissà che agli altri non piaccia e intanto dimostro che ho qualcosa da dire e mi faccio notare e poi se non la butto li di corsa finisce che me la scordo, sbircio di corsa i titoli dei post sul mio aggregatore per ridurre il totale dei non letti, mi aggiorno sullo stato dei miei “amici” anche se l’ho fatto appena un minuto fa ma intanto fammi vedere, non vedo l’ora di far sapere a tutti quello che è successo ieri e cosa ha detto quel tizio anche se non so chi sia però mi pareva carino condividere, e non sopporto di non essere interrotto da qualcuno con delle novità o che nessuno dei miei “amici” disponibili online mi contatti per qualcosa anche solo minimamente importante – così magari riesco anche oggi a crogiolarmi nella mia nullafacenza.

L’aggiornamento parossistico rischia di diventare autoreferenziale, l’aggiornasi fine a sè stesso, e di trivializzare l’attività intellettuale riducendonela portata ad un uso estensivo ed esclusivo della sola memoria a breve termine. Questo a sua volta banalizza l’impatto e la risonanza, specialmente interiore, di qualsiasi evento, mortificandone l’emivita nella preparazione all’accoglienza del prossimo evento - qualunque esso sia; e può indurre un abbassamento delle soglie soggettive di accettazione, e omologazione e indifferenza nella ricezione delle novità. Quando assume forme patologiche, l’aggiornarsi si estende ad occupare tutto il tempo disponibile, lasciando spesso ben misera ricompensa rispetto al senso di dissipazione e inanità che induce. Assomiglia ad un lasciarsi andare in balia degli eventi e delle correnti, un esporsi deliberato alla fluttuazioni benchè minime della “realtà”. E più l’accesso alla “realtà” è facilitato, più si può dare il caso di sentirsi in dovere di collegarsi in ascolto dell’ultimo sussulto, peto o rutto che soltanto dal loro essere ultimi in ordine di tempo traggono il loro valore.

Quando questo si combina narcisisticamente con il desiderio di far fronte efficientemente ad una quantità di informazione (potenzialmente) in ingresso crescente e multidirezionale, ne deriva una ristrutturazione delle modalità stesse di pensiero preoccupante, una revisione anche radicale che assomiglia a una regressione verso forme di ragionamento ancestrali, infantili nella loro scarsa articolazione, deficit di attenzione, soccombenza a istinti primordiali, assenza di profondità e prospettiva, e puntellata su concetti effimeri e idee soltanto abbozzate, magari in balia della moda o dell’ultimo parere stiracchiato di qualche autorità improvvisata. Così si perde la dedizione a ragionamenti lunghi e ascosi, la propensione all’introspezione, e a meditazioni pervicaci e sostenute nel tempo che dischiudono grandi tesori soggettivi e inalienabili, a passare in rivista esperienze passate e riferimenti culturali, per sedimentare informazioni, setacciarle, bruciarle, reinterpretarle e, quando lo meritino, finalmente incastonarle in un quadro più coerente ed entro orizzonti più vasti e comprensivi – è da questa pedissequa attività di integrazione che nasce la cultura personale. Al suo posto oggi viene proposto tanto rumore ideologico – quali edifici culturali costruireste su fondamenta tanto scricchiolanti?

La selettività, quantitativa e sopratutto qualitativa, deve tornare ad essere un valore fondamentale, antidoto al rumore, non fosse altro perchè negli ambienti che spesso ci circondano essa sarebbe nervosamente e fisiologicamente salutare.
Il rumore a larga banda generato dall’aggiornamento e patito nell’abbondonare la circospezione nel proporsi e aprirsi all’esteriore si fronteggia con filtri a banda stretta. Solo se ammessa attraverso le maglie della selezione una novità può essere riconosciuta come informazione utile, e l’informazione utile eventualmente aspirare ad essere promossa al livello di conoscenza.
Questi filtri si costruiscono conoscendosi: fissando le proprie priorità e aspirazioni, riconoscendo i propri gusti, affinità e passioni, e concentrandosi su di essi. Se ne guagagna innanzitutto in efficienza d'azione ed autostima. Occorre abbattere l’illusione di onnipotenza indotta dall’obliterazione delle barriere spazio-temporali, e domare la coazione allo sfruttamento e all’esplorazione degli spazi sconfinati così dischiusi, spesso giustificata soltanto dal fatto che ora sono accessibili: altrimenti si rischia facilmente di perdersi, di sentirsi (più) soli e angosciati, e di annichilirsi. E' anche auspicabile una distribuzione e coordinazione dell'attività di filtraggio entro i gruppi sociali o mass-mediatici che si frequentano, concedendo confidenza ad amici o professionisti a noi affini e di provata autorità.
Prendersi delle pause immersi nella propria intimità, mettere ordine nei propri pensieri con comodo e agio, sviluppare le proprie intuizioni criticamente e al riparo da influenze esterne – sono attività salutari di maturazione e fortificazione, personale e collettiva, messe a repentaglio dal rumore.

Dalla possibilità di essere interconnessi sempre ed ovunque non deve discendere la coazione ad esserlo.
Nella civiltà protesa ad magiam per technicam, sapersi disconnettere tenderà anzi a diventare un pregio, più difficile che connettersi, e forse segno di virtuosità.

Riferimenti:
B. Kosko, Noise, Viking Press, 2006.
F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo
spirito della musica
, Adelphi.

Collegamenti:
Massimo Mantellini interviene con cognizione di causa sull'argomento: "i cittadini informati saranno quelli che troveranno tempi e modi per filtrare il diluvio informativo che li raggiunge ogni giorno. [...] Dentro questo diluvio c’è anche la nuova funzione della stampa ai tempi di Internet di proporsi molto più come mediatore informativo e molto meno come produttore di notizie."
Peter Gomez converge sulla stessa linea (e di fronte all'ignobile "legge bavaglio" approntata dal presente governo italiano): "Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori."
Umberto Eco (nel contesto del fallibilismo scientifico) sostiene il filtraggio come parte essenziale dello sviluppo della cultura stessa : "[...] una cultura (intesa come sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi, eredità storica condivisi da un gruppo umano particolare) non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Vale per una cultura quello che vale per la nostra vita individuale."
Arthur C. Clark esprimeva già idee a riguardo: "The Information Age offers much to mankind, and I would like to think that we will rise to the challenges it presents. But it is vital to remember that information — in the sense of raw data — is not knowledge, that knowledge is not wisdom, and that wisdom is not foresight. But information is the first essential step to all of these." [da "Humanity will survive the information deluge"]

venerdì 30 aprile 2010

Questione di temperamento (La delusione dello spettro e lo spettro della delusione)


Tutto ha inizio da una delusione matematica.
Pari a quell’altra, più famosa ma meno tangibile, dell’impossibilità di esprimere il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato come rapporto tra due numeri interi. Già questa prima impossibilità mandò in depressione Pitagora – uno straganzo, per inciso – e incrinò la perfettibilità della sua visione numerica del mondo. Figuriamoci cosa gli prese quando si accorse dell’altro problemino, che per lui aveva risvolti addirittura sferico-planetari – un problema il cui spettro risuona, letteralmente, fino ad oggi.

Questo problemino si spiega facilmente con le corde (c’è chi ci ha provato con le camicie, con risultati scarsi), anche se dopo questo preludio pare quasi di parlarne a casa di un impiccato.

Allora: prendete una corda e fissatela rigidamente ai suoi due estremi (“Ma sembra una corda di chitarra!”: non sembra, lo è). Se la pizzicate, questa vibra (onde stazionarie) e così facendo emette un suono (fondamentale, supponiamo che sia per esempio la nota DO), la cui frequenza dipende inversamente dalla lunghezza della corda, e la cui intensità dipende da quanto forte l’avete pizzicata (il timbro dipende in maniera complicata da quello che sta intorno alla corda).
Lo straganzo di cui sopra si accorse (per primo, almeno idealmente) che se si blocca la corda nel suo punto medio (bisezione della corda), ciascuna delle due parti ottenute produce un suono di frequenza doppia rispetto alla fondamentale (prima armonica, o ottava, superiore) che ai nostri orecchi risulta come la “copia” della fondamentale (questo si spiega con un pò di fisiologia e di acustica, vedi Frova-1) ma più acuta di quella. E potete continuare ad libitum con le bisezioni, ottenendo ad ogni passo dai pezzi di corda dimezzati un suono di frequenza doppia rispetto al precedente (nel nostro caso, tutti i DO superiori che volete; anche se dopo i 20000 Hz e i 50 anni dovrete usare molta immaginazione per percepirli – ma al contempo capirete cosa provava Beethoven!).
L’istesso straganzo sembra si fosse anche reso conto che le cose fossero anche più gajarde di così. Infatti, se bloccate la corda libera a 2/3 partendo da un suo estremo (“dueterzizzazione”, se me lo consentite), scoprirete che la parte maggiore della corda così bloccata emette ora un suono di frequenza pari a 3/2 di quella originale (quinta giusta superiore, nel nostro caso un SOL), mentre l’altra parte (come indovinerete, a questo punto) un suono di frequenza doppia rispetto a quello della prima parte (essendone lungo la metà; quindi l’ottava superiore al SOL di prima). E anche qui potete proseguire nella dueterzizzazione della parte di corda già dueterzizzata, ottenendo una successione di note in rapporto frequenziale di 3/2 rispetto alle immediate precedenti. Esplicitando questa sequenza nel nostro caso: DO – SOL – RE – LA – MI – SI – FA# - DO# - SOL# - RE# - LA#(Sib) – FA – DO.
Toh guardate! Dopo esattamente 12 dueterzizzazioni ricompare un DO, e sta esattamente 7 ottave sopra al DO originale! Spettaculum visu! Armonia celeste! Pitagora straganzo planetario in excelsis!
Giusto?!
NO!
Perchè, matematicamente, 2^7 è diverso da (3/2)^12 !

Delusi? Scioccati?? Vi capisco, c’è da impazzirci, specialmente se non ci si era mai pensato prima...
E pensate a Pitagora, che ci aveva addirittura teorizzato l’armonia del sistema solare...

Il millenario problema del temperamento musicale sta tutto qui, e c’è poco da fare riguardo se non abbozzare e minimizzare (o rimuovere, come si fa nella stragrande maggioranza dei casi).
In sintesi, il problema deriva dal fatto che il punto di arrivo dell’algoritmo di bisezione non coincide con quello dell’algoritmo di dueterzizzazione, come invece a priori si sarebbe portati a pensare. L’illusione deriva anche dall’aver dato esattamente (ma convenzionalmente) lo stesso nome (a parte l’indicazione dell’ottava di appartenenza) a note che invece approssimano soltanto, e sempre peggio, il rapporto ideale che le dovrebbe legare alle originali.

“Ok! Ma in pratica, perchè questo è un problema?” vi starete giustamente chiedendo.
Ci sono diversi tipi di contrattempi connessi a questa fatale incongruenza. E rendersene conto richiede un certo sforzo per chi, come noi, è abituato ad ascoltare musica (praticamente tutta) che ha adottato una certa soluzione pratica a questo problema (che vi spiego tra poco) e l’ha ormai assiomatizzata. Ovvero, nell’impiegare un certo tipo di temperamento (che è la selezione delle note disponibili e la loro distribuzione nello spettro sonoro, che di per sè è una scelta arbitraria quanto convenzionale) piuttosto che un altro (tra i tantissimi escogitati), la musica (occidentale, soprattutto) ha prescelto anche l’intero insieme di intervalli e in definitiva di accordi (emissione simultanea di suoni) possibili. Questa scelta può avere motivi fisiologici e storici, ma è comunque ormai data per scontata: è il punto di partenza stesso della teoria musicale occidentale – come direbbe Schoenberg (originariamente a proposito dell’armonia tonale), è diventata per noi una seconda natura.

Il punto centrale è che, utilizzando l’accordatura dettata dalle regole geometriche introdotte da Pitagora e poi aggiornate da Tolomeo, Zarlino e da altri nel corso della storia - accordatura detta naturale - ogni tonalità è unica. Con unica intendo sia 1) che i rapporti tra le note successive all’interno della scala di ogni tonalità sono diversi da quelli di ogni altra; sia 2) (come conseguenza di 1), e per la fisiologia dell’apparato uditivo umano) che ogni tonalità ha un colore, un gusto, una qualità percettiva ben precisa e distinguibile – persino prevedibile, ed anzi ben presto catalogata dai compositori e sfruttata di conseguenza. Un pezzo bucolico pastorale? Vai col FA maggiore! Un pezzo grigio, triste ma maestoso? Niente di meglio (o peggio, diciamo) di un DO minore! Un Allelhuja gioioso, un pezzo eccitante e festoso? Come non usare il RE maggiore!
Questa unicità delle tonalità ha molte conseguenze, tra cui:
  1. la stereotipizzazione delle tonalità, che tuttavia rende l’ascolto meno impegnativo per l’ascoltatore medio, in quanto più prevedibile (e dunque gradito; Schoenberg sosteneva, più o meno, che gli ascoltatori accettano musica nuova, purchè sia vecchia);
  2. allo stesso tempo, alcune tonalità suonano malissimo e vengono sistematicamente boicottate per non provocare conati negli ascoltatori (nessuno si sognava di scrivere pezzi in LAb maggiore o MIb minore, per esempio);
  3. alcuni strumenti hanno delle accordature fisse, native per facilità di utilizzo, per cui suonano meglio nella tonalità nativa che non nelle altre; e questo è un problema sia negli assoli, sia nell’uso simultaneo con altri strumenti. Inoltre, negli strumenti a tastiera si giunse al punto di dover disporre di tastiere multiple per alloggiare tutti i suoni di cui si aveva bisogno (perchè, in sostanza, DO# è diverso (più acuto) di REb);
  4. per evitare cacofonie e intervalli azzardati (che poi diventeranno addirittura “vietati” in fase di cristallizzazione delle regole dell’armonia classica tonale), si tende a rifuggere dal cambiamento di tonalità (cioè dalla modulazione) nel corso di un singolo pezzo musicale; il che, specialmente nel Medioevo, era più che benaccetto: restare per tutta la durata di un brano entro la stessa tonalità era la norma (pensate al canto gregoriano, o ai brani di musica popolare) e rappresentava musicalmente la permanenza perpetua ed imposta degli individui sotto lo sguardo del dominatore e sotto il sistema di valori imposto dall’alto - un restare sempre comodamente a casa senza digressioni azzardate in territori sconosciuti. Al massimo ci si poteva allontanare dall’impianto tonale iniziale per poi tornaci alla fine, con grande effetto liberatorio nonostante fosse atteso se non obbligato. Altro che progressive; vedi Rattle).
Il secondo punto è che l’accordatura naturale sembra suonare “meglio”. Ce se ne può ancora rendere conto ascoltando cori a cappella di alto livello, la cui potenza sonora sembra pari a quella di eserciti interi nonostante i coristi siano pochi, ma proprio perchè risuonano perfettamente e indovinano accordature magnifiche.
Ovviamente qui si entra largamente nella zona del gusto e dell’abitudine; ma si capisce l’impatto che ogni proposta di cambiamento del temperamento e addirittura di adozione di uno standard doveva produrre sugli ascoltatori - al tempo anche più conservatori di ora.

Come detto, nel corso del tempo sono stati proposti centinaia di temperamenti diversi, ognuno dei quali concede importanza relativa maggiore ad un aspetto della problematica (per esempio, l’intonazione della terza maggiore e della quinta giusta) rispetto ad un altro (per esempio, la facilità di trasposizione). E qui non posso non citare il neo-pitagorico J. S. Bach, che compose la sua gran raccolta di 48 preludi e fughe per sponsorizzare un particolare temperamento, che funzionava bene secondo lui e per questo fu chiamato “bel temperamento” e che tuttavia non coincide con il temperamento in uso oggi (dei dettagli di questo bel temperamento non si ha traccia sicura). Un gesto storico perchè dimostrò platelamente quali scenari potesse dischiudere un temperamento opportuno.

E ad un certo punto si (ri)affermò una proposta semplice quanto efficacie: il temperamento equabile.
In sostanza, l’idea alla base è questa. Quale è il rapporto tra la frequenza di una nota e quella della sua ottava superiore? 2. Quante note vogliamo entro una ottava? 12 (scelta più comune). Bene, come facciamo a distribuire queste 12 note entro l’ottava nella maniera più equa ed egualitaria possibile (ovvero, come possiamo ripartire il fatele errore di cui sopra tra tutte le note, così che magari alla fine non si vede)? Semplice: moltiplichiamo la frequenza di ogni nota per la radice dodicesima di 2, ed assegnamo questo nuovo valore alla frequenza della nota successiva (questo funziona perchè lo spettro sonoro è distribuito secondo una scala esponenziale).
Ora, la cosa interessante è che questo artifizio funziona piuttosto bene anche nell’approssimare le accordature naturali di quasi tutte le note e allo stesso tempo, e per tutte le tonalità! E’ un bel colpo di fortuna.
Questa equalizzazione matematicamente esatta e acusticamente ragionevole è un intervento dal sapore democratico che, mentre le legittima tutte, annulla però la suddetta unicità percettiva delle tonalità. Ma allo stesso tempo, e soprattuto, permette l’accesso definitivo ad un artificio compositivo potentissimo, rinfrescante, catartico: la modulazione tra le tonalità. L’omologazione delle tonalità rese ogni tema musicale invariante rispetto al trasporto da una tonalità ad un altra, a parte l’altezza delle note effetive. Le melodie diventano effettivamente portatili.

L’accesso libero alla modulazione incrementò a dismisura la libertà dei compositori e il terrore degli ascoltatori, impauriti dalla prospettiva di tanta maleducazione e sconsideratezza. E allora, giù con trattati di teoria musicale apollinei e inderogabili, che cercano di imbrigliare e disciplinare questa libertà senza precedenti; e guai a voi se agli esami di armonia vi permettete una modulazione ai toni lontani senza almeno una nota in comune.
Ovviamente, e per fortuna, i compositori hanno sempre ragione rispetto ai teorici, fanno quello che gli pare e piace, e se ne fregano delle “regole” (e alla fine i teorici gli devono andare dietro!).
La modulazione nelle mani dei compositori più profondi ed innovatori permise di spaziare rapidamente e leggiadramente entro la geografia delle aree tonali.
E così la modulazione diventò l’arma più potente nell’aggressione ai confini del sistema tonale: derogando dall’ideale pitagorico, il temperamento equabile permise un progresso musicale senza precedenti. Ecco allora in successione Mozart lo sbruffone che gioca con le alterazioni, Beethoven il serissimo che serissimamente fa strabuzzare gli occhi per l’ardore agonistico delle sue sonate e dei suoi ultimi quartetti, Schubert che svolazza romanticamente tra le tonalità nell’intimità dei suoi quartetti, Debussy che accosta simulacri di accordi tonali solo in base al loro colore, Wagner che comincia a non capire più cosa sia la tonalità, Schoenberg che la sospende e poi inventa un algoritmo personalissimo (quanto poi copiatissimo, ed eretto addirittura a norma) per comporre pezzi – la dodecafonia, che astrae gli artifici classici di permutazione dei temi ma non contempla alcun concetto lontanamente echeggiante la tonalità.
Dopo Schoenberg, chi si azzardava a parlare tonale era considerato un principiante indecoroso. Ingiustamente, perchè “il DO maggiore ha ancora molto da dire” [un attimo che ci penso].

Detta così, può sembrare una bella storia appassionante come un romanzo appassionante, in cui opposte fazioni di progressisti e reazionari si scontrano in una battaglia fiera e rancorosa. Se volete vi lascio con questa illusione.
In realtà - sebbene ci siano molti eruditi che, anche a ragione, sostengano la necessità di un ritorno al temperamento naturale per apprezzare l’armonia primordiale (un esempio recente è questo) – occorre notare che la differenza percettiva tra temperamento equabile e naturale è molto piccola e, con buona pace dei fissati egomaniaci che se la tirano, piuttosto trascurabile (per esempio, confrontate gli estratti che trovate qui).
Personalmente sono molto a favore, quando possibile in base a tracce storiche attendibili, all’utilizzo dell’accordatura originale in base alla quale i compositori stessi hanno concepito i loro pezzi (in cui rientra anche l’utilizzo degli strumenti coevi).

Ma vorrei concludere con una osservazione che non appare in tutto l’annosissimo dibattito attorno al temperamento - nonostante sia, secondo me, cardinale. Ha a che fare con quello che la meccanica quantistica ha chiamato principio di indeterminazione, ma che più semplicemente, nonchè originariamente, è una proprietà intrinseca del suono, o meglio dei segnali (il celebre prodotto durata-banda minimizzato dai segnali gaussiani! la cui divulgazione si deve incidentalmente, tra gli altri, al buon vecchio Nyquist, lo stesso del teorema del campionamento) – o meglio ancora di ogni sistema lineare tempo-invariante (i cui domini reciproci - di cui le variabili coniugate della meccanica quantistica sono un esempio - sono legati dalla trasformata di Fourier; vedi Kosko).
E la cosa interessante è che, a quanto dice Frova-2, ne erano al corrente anche Newton e Bach.
Si tratta della relazione di reciprocità che lega la durata del suono alla sua specificità frequenziale. Torniamo alla nostra corda?
Bene, riprendetela e pizzicatela in modo che la sollecitazione sia la più breve possibile (per gli amici di Nyquist: approssimi una delta di Dirac). Otterrete una vibrazione più vicina ad un rumore che ad un suono ben definito. Se invece la sollecitazione è più lunga, il suono è ben riconoscibile.
Vale a dire, la definizione spettrale dei suoni (ovvero la loro accordatura!) dipende anche e imprescindibilmente da come il suono è emesso (transitorio di attacco e durata del suono): sollecitazione istantanea, spettro largo e rumoroso; sollecitazione lunga, spettro stretto e definito.
Una simile dispersione dello spettro sonoro delle note si applica in particolare agli strumenti pizzicati (chitarre e clavicembali) e, anche se meno, a quelli a corda percossa (pianoforti).
E più in generale, questa dispersione può essere tale da oscurare, ai fini pratici, ogni residua affermazione del secondo incubo pitagorico.

Riferimenti:
A. Frova - Armonia celeste e dodecafonia, BUR, 2006
A. Frova - Bravo Sebastian, Bompiani, 2007
A. Schoenberg - Manuale di armonia, Il Saggiatore
S. Rattle - Leaving Home
B. Kosko - Neural Networks and Fuzzy Systems, Prentice-Hall, 1991

mercoledì 14 aprile 2010

Rinormalizzare il linguaggio


Il linguaggio verbale è uno strumento comunicativo complesso e strutturato, flessibile e fertile.
Questi, come molti altri, sono attributi contingenti del linguaggio, emersi e selezionati attraverso un lungo cammino evolutivo etnico e culturale, oltre che fisiologico. Pur desiderabili, sono tuttavia attributi secondari rispetto alla caratteristica preminente di un simile strumento, che ne determina la funzionalità: l’espressività – la sua capacità di articolarsi e dispiegarsi fino a rappresentare la sostanza e il significato da trasmettere con soddisfacente aderenza, in un un esercizio di isomorfia perfettibile quanto convenzionale. Il linguaggio verbale si accresce, si stratifica, incorpora informazioni e conoscenze, sussume punti di vista e giudizi (anche subdolamente, come noterebbe Feyerabend), si aggiorna di risorse senza precedenti o riciclate, si deforma e si riconfigura al comando dell’utente per assecondarne le intenzioni e le direttive.

Persino l’espressività del linguaggio verbale è tuttavia, come le precedenti, una caratteristica labile che necessita di essere coltivata, esercitata e mantenuta attiva. E non occorre raggiungere gli orrori orwelliani di una rimozione dall’uso, sistematica quanto impercettibile, dei vocaboli del linguaggio per ritrovarsi progressivamente tra le mani un corpo finalmente mutilato, vacuo e devitalizzato.
Una modalità più semplice e meno evidente della precedente, che comunque non esclude anzi coadiuva, d’inibimento del potere espressivo del linguaggio è il suo appiattimento conseguente alla sua polarizzazione verso le estremità dello spettro espressivo – la sua digitalizzazione e trivializzazione ad una scelta binaria tra iperboli che si addensano soltanto agli estremi opposti della palette descrittiva. L’uso diffuso e compulsivo di esagerazioni, superlativi e neologismi oggi in voga - mutuato principalmente da intenti commerciali e scopi pubblicitari, ed efficacie nell’accalappiare l’attenzione per via del retaggio atavico dell’allerta verso un’insidia costante - induce facilmente la saturazione delle capacità recettive del destinatario. Affaticato dall’immaginare gradi sempre ulteriori e dal simulare traguardi ineguagliati per intensità d’esperienza, il ricevente può desistere dall’impresa o assuefarsi ad un linguaggio irto di bolidi lessicali ingombranti e spropositati. Ne deriva nel complesso un appiattimento del pensiero, uno spogliamento della sua vividità, una regressione della capacità di contemplare e gestire la gradualità e l'interpolazione.
L'affannosa aggiunta di livelli addizionali ai confini del qualificabile e dell’esperibile somiglia alla ricerca e induzione di gusti inusitati e surrettizi in gastronomia – è una opzione legittima anzi da investigare, purchè non danneggi e obliteri al contempo la ben più ricca e raffinata potenza espressiva del continuum frapposto agli estremi. La perdita delle sfumature e l’esclusione dei mezzi toni dalla gamma indicativa può non solo indurne l’eliminazione dal codice linguistico, ma anche precludere la facoltà stessa di percepire, individuare e qualificare tali stati intermedi dell’attribuzione. Con buona pace delle logiche a molti valori, e del loro potere computazionale e rappresentativo concettualmente superiore alla logica aristotelica degli opposti.

Tuttavia, la stessa dinamica evolutiva che ha forgiato il linguaggio verbale può suggerire una soluzione a suddetta deriva verso gli estremi. L’adattamento a innovazioni e nuove esperienze, che è una delle manifestazioni precipue dell’evoluzione, permette infatti di rinormalizzare il vocabolario di cui si dispone conseguentemente, per adeguarlo alle nuove esigenze comunicative senza adulterarlo nè impoverirlo. Quando si realizza che un’estensione dei confini del descrivibile è intervenuta, un linguaggio vivo e informato si può distendere per ricoprire in modo nuovamente conforme il nuovo dominio: ha tutti i mezzi per farlo.
E’ questo processo endogeno di rinormalizzazione - per cui l’aggettivo “cosico” usato oggi tiene conto delle nuove frontiere della “cosità” ed, incorporandole, è necessariamente diverso dallo stesso aggettivo omofono ma usato ieri – permette di aggiornare il significato degli attributi già esistenti e saggiati mantenendo intatta la loro gradazione e la loro posizione, pur non univocamente definita, nella gamma espressiva – evitandone lo svilimento e l’appassimento.

lunedì 5 aprile 2010

The Italian experiment

(Aggiornamento - 12 Aprile 2010: Claudio Messora ha pubblicato la traduzione in italiano di questo post sul suo ottimo blog)


Ladies and gentlemen,

I kindly commend your attention to let me briefly engage you in a surprising thought experiment. Close your eyes and allow yourself to drift into a relaxed state of mind...


...Imagine a small hyperdynamic country with little material resources but for an ever-bright sunlight, and adorned with amazingly-varied and astonishingly-touching landscapes; a country plagued by a very-long history of parochial fragmentations and wars, of domination by foreign, exploiting and often-unwise powers, and of unreasonable submission to a superstitious christian-catholic morality; a country with an equally-long, mindbogglingly-rich, deeply-influential cultural heritage expressed by many talented and enlightened geniuses, carved into unique monuments, engraved in immortal literature, overflowing in musical epitaphs, built into splendid architectures and embodied into mesmerizing popular gestures, a greatly-expressive and musical language and a supreme food taste.
Now update your mental picture of this peculiar country, and think of it as held by a formally-young but practically-puerile democratic political system, as originated from the violent reaction against a short but influential dictatorship - which achieved the first realization of collective hypnosis of human masses in modern European history, brought the country into a disastrous global war and left an everlasting impact in the country's collective imaginarium, when not longed-for by some of its citizens. A fragile democracy, though guaranteed by a solid, brilliant and envied Constitutional Law; a democracy nonetheless reflecting the lazy, clownish, approximative spirit of its average inhabitant - poorly-educated, formally-catholic, informed only by electric broadcasting mass-media and book-repellent, superstitious, creative, easy at complaining as much as accepting any moral and illegal abuse not offending his material standard of living, unrivaled in the black art of surviving, escaping from responsibilities and secretly-loving being dictated what to think and what to do.

Suppose now that a charismatic human figure arises to stand in front of this popular background - an ever-smiling, self-confident, smart and ambitious financial mind, expert in image manipulation and communication strategies. Suppose that, thanks to a vast economic fortune of supposedly-unclear origins and to a remarkable personal entrepreneurship, he is progressively able to settle a network of local broadcasting televisions, to build entire towns, to buy newspapers and book publishers, commercial chains and a hugely-successful football team. He builds for himself a preposterous image of a powerful self-made man, sharply-distinguishable and evident from the rest of its likes, largely-rich yet easy to trust, and wildly-alluring for his alleged King Mida-like taumaturgic capacities. Also, include in the picture that his dominating political and masonic allies help him solidify his illegal media tychoon status, legally-turning the country's media establishment he has largely distorted over time into normality. At the same time, consider how the country's citizens are bored of the monotonic, candid and uniform general-purpose public television, so that more and more they accord their preference and attention to the tycoon's own commercial and finally whole-country-spanning emissions - imbued with sticking advertisements, charmingly-vulgar entertainments, naked women, money-awarding shows, gold-covered former public television anchormen turned to the competition, and a permeating sense of optimism, dramatically-combined with the underlying assumption that brute money cannot but buy everything and lead to bullet-proof success.

At this point, start to reason about the influence that such self-imposed and perpetual exposure to a similar pervasive mass-mediatic conditioning may have on the mindset and weltanschauung of the citizens adhering to the new proposed lifestyle. By limiting their own sources of information to the few means kindly and apparently-freely provided by the ever-winning wide-smile man, this increasing mass of people unconsciously starts to perceive and interpret reality through the very eyes and mind of such man - they look at reality as he himself would like it to be shaped. Their gnoseologic apparatus is progressively-distorted to adapt to the distilled links to unreal reality their media godfather allows them - in the void name of freedom and liberalism.

Now let's raise the thread. Imagine that the man realizes that, during his glorious and impeccable activities, he has eventually made too many debts - his offshore financial societies, criminal and masonic links notwithstanding. He is desperate, but because of his narcissisticly-disturbed personality he considers himself invincible, and does not allow himself to loose and be deprived of his own fortune. At any cost. Thus, he turns to his even-darker fellow, who prodigiously treats him with an invention of sheer genius. Declaring bankruptcy? No. Escaping the country? No. Harakiri? Never. Instead, what about exploiting political immunity and overruling the very laws by governing the country itself? What more, with prodigious synchrony the man gets at that frantic conjuncture of need the perfect chance to enter the politic forum unsuspected of his publicly-declared aims (avoiding jail) - or better, unmistakably-hailed as the right, ideal, longly-expected good Samaritan, savior of the country from its collapse and for the pure country's sake. In a time of radical turmoil for the country's politics, as thoroughly revealed by the courts of justice, and for its social security, undermined by criminally-concerted and distributed mass killings, the man entered the political soccer field with a movement of plastic puppets, named after a stadium slogan; and with unprecedented speed - boosted by obsessive advertisements delivered through his televisions and papers, the plague of his enchanting imago of homo novus to politics destined to nothing but succeed in it, as well, as he had so-well done in his own business, and his strong appeal to the widely-felt impelling need of renovation - he finds himself standing on the throne. Willing to remain thereby seated forever.

Now increase the focus while you mentally dig into the technicalities of his strategy - built on that neat treasure of mass psychology deployed by US think-tanks in the '70s. The man debuted with an unprecedented feat. By the time of his appearance, a large part of the country's society was well-used to watch his own televisions - to look at reality through the minuscule and distorting cathodic keyhole of his commercial emissions. Well, at this point the divus manifested himself exposing in people's own homes through that filtered private keyhole. He addressed the potential electorate directly, without verbose filters and old-fashioned, first-republic-like lingerings. A memorable breakthrough: he plugged a private domestic cable to all citizens to monopolize their attention and dramatically made the emotional link between himself and the voters tangible. Hypnotized people do not realize that they are manipulated, and protest when pointed out to be asleep. That's the signature of a working hypnosis. Here the name of the hypnosis is emotional narrative.
The man capitalized on his anciently-seeded and longly-fed emotional connection with his public by few well-studied means. He let the people project themselves and recognize in himself by not hiding or even inventing presumed private defects: being short to the point of needing heels, tombeur de femmes, telling jokes in official occasions, and more. He looses no occasion to draw public attention on himself - at risk of ridicule, too. He made his personally-idealized history known to all citizens of the country by delivering his shining biography to millions of homes (at public expense). Short of inspiration if not from psychological negative self-projections, he claims to inspire his activity to the high ideals of freedom and liberalism, and accordingly re-named his political party. He distracted the attention of his hailing crowds from personal troubles toward terrible ominous enemies, to be found in almost-extinct species called communists (while being proud of being friend of a dreadful former KGB member and Russian president). He started a furious battle to attack the presumed obstacles to his otherwise prodigious action: the magistrates, and ultimately the Constitution itself. He promised a new economic miracle, claimed to spread optimism and love against the poor and hateful left wing while producing aggressive speeches and vulgar prosecutions against public institutions. The voters seemed to accept everything anyway anytime, when not being proud of the implicit power the man arbitrarily accorded to himself.
But this was only the apparent tip of a deep iceberg.
His planned action was easily and hugely successful also because he had meanwhile sold a joyful dream to his sea of voters, whose affection to their loved leader could not be shaken by any of his numerous illegal actions, confirmed failures, supposed crimes, established scandals, hypocritical christian-catholic moral (yet repeatedly consecrated by the roman church itself in exchange of tax exemption). His voters were by now engaged in a living story - just like the many they used to watch on his televisions, but much better and in first person - where they projected themselves into their hero, and could support him as long as they could vote for him (they need democracy for this), and wanted nothing but see the wonderful, glorious ending awaiting such magnificent collective enterprise in the face of the many purported enemies and obstacles and crises and impoverishment and exploitation and the boss' carelessness for people's needs. His voters want to live the dream they were sold - even at the cost of denying reality. A sealed link to the leader - nothing could remove such tremendous spell.
More radically, the man has by now deeply-revisited the very political parlance after having forged the popular, ejecting consistent meaning from common words and filled them back with a void irrelevant one; he introduced categories like love and hate that are not pertinent to politics, made unprecedentedly crystal-clear demagogic statements in each and every occasion, altered the very dynamics of the country's political life by enlisting starlets of his clownish cathodic stardom in his political lists, transformed the Houses of Parliaments into depandances of his own villas and palazzos. He instructed himself and all his adepts to systematically deny any allegation and accusation even in the face of documented facts. What more, he was unbelievably blessed by the conspicuous luck of being faced by the (to say the least) negligible opposition demonstrated against him by the major left-wing party - the most harmless, masochistic, self-contradicting, inconclusive party ever witnessed in the country's history: on the one hand, such party found itself dealing with the new advertisement-oriented gossip-moved language established by the man himself and, instead of rejecting such mischievous jargon, happily adopted it, ultimately acting from the beginning as a non-protagonist character on a stage set by and dedicated to the man; on the other, it was not able of any substantial initiative to let the spell go extinct even during the rare moments of power, unable to declare the huge conflict of interests of the man illegal, ultimately perfectly embodying the vile figure of a mellifluous cloud of recycled unconvincing stains wanting to enjoy easy public money without assuming any responsibility of leadership. Such party was, if anything, an excellent reason for the man's voters not to be deflected from their blind preference.

Now top off your mental construction by filling in the details of the dark side of the artifex of the spell. The man now standing in front of you cannot tolerate any criticism against his acts, and openly declares this out, in hindsight, by voicing out loud his supposedly-strenuous defense of pluralism and liberalism. His narcissism is extreme to the point of disturbing his personality. And he is dreadfully obsessed with his past - which may be on the verge of revolting against him and/or of being finally publicly unveiled - expressing out such parossistic obsession, in hindsight, with his perpetual refusal of letting himself being judged by the country's ordinary justice. He mistakes the hypnotic support manifested by the people with a supernatural blessing that should wishfully make him omnipotent and legitimate him in bending the law of the country at his need and please and in being considered more equal than all other citizens. And he avoids no occasion to fiercely shoot against magistrates and to spread hatred and skepticism over their constitutionally-supported activity, clearly-admitting, in hindsight, his guilt even before any potential trial. He is an essentially-lonely man that surrounded himself and filled the country's institutions with people who either owe something to him or want something from him or can menace him or that he can easily program to operate according to his private will. This way, he was able to let the Parliament approve a long list of infamous laws dedicated to solve his own private justice problems, letting his crimes go extinct before he could be accused or prosecuted for them - always proclaiming to act exclusively in the name of the people's need - a peculiar name for private interests. He finally hijacked the public information sources by surgically-removing all the most troublesome dissonant voices to be thereby found, and lining the public services up with his own private armies of mercenaries. The few political parties of true irreducible opposition are constantly anathemized as extremists, anti-politic and even anti-country, with no less than the approval of the major left wing party itself. Instead of recognizing in this warning the very signal revealing the very source of actual fear for the regime, most perplexed citizens agreed with the ban and flew away from such insidious minorities.
And docile new generations of faithful unscrupulous supporters are being forged by enacting a radical decomposition and miserable downgrade of public educational institutions, schools and ministerial programs.

The man's entire construction is pin-pointed around himself, and therefore destined to annihilate at the moment of his disappearance. But meanwhile, this lonely man is leaving tragic ruins all over the place.

If you bore with this exotic experiment till here, you should now have in mind a rough picture of a decaying country happily and blindly moving toward financial, cultural and institutional collapse right on the verge of a new dictatorship - where the few surviving antibodies that can hopefully reinstate health and secure future prosperity and civilization are mainly segregated in rigorous newspapers and magazines, on the Internet and in domestic intellectual havens. The last diabolic spell of the enduring regime consists in letting these numerous distributed circles feel like isolated and inane particles in front of the dominating consensus.

This experiment is an illusion - a tough one, but still an illusion...


...Right, honorable ladies and gentlemen! You did it - till the end!
Did you play the experiment? Were you able to imagine such a country?
Perfect, then you are ready for the final treat!
Now, open your eyes and ... lo' and behold!

Such a country actually exists.