giovedì 3 giugno 2010

Contro il rumore

[NB: Post aggiornato dopo la pubblicazione originale]

La nostra civiltà è ancora troppo rumorosa.
Ed il rumore logora.

E’ vero che un’aggiunta sapiente di rumore può inaspettatamente aiutare nel trattamento e detezione di segnali [Kosko], che lo stato fondamentale della materia è vivo e dinamico, e che dal brulicare inesauribile delle pulsioni risorge la creatività [Nietzsche].
Ma a lungo andare, vibrazioni incontrollate applicate constantemente a strutture meccaniche le logorano portandole a perdere la loro funzionalità, alla distorsione e infine alla rottura. Una di queste strutture delicate quanto meravigliosamente sensibili sono i nostri apparati uditivi, dove inoltre il logorio meccanico si accompagna ad un anche più grave logorio nervoso – sebbene un costante sottofondo musicale sia benvenuto da molti come antidoto alla noia e per sopportare tempi morti. E questa, ovvero la versione acustica e meccanica, è soltanto l’anticamera della forma di rumore più nociva: che è quel pasticcio dissonante e sterilmente confuso di annunci, istantanee, prolusioni avventate, dicerie, voci di corridoio, sentenze di persone stanche o vanitose che affollano fino a saturarli i canali informativi attuali – nel nome dell’essere aggiornati.

La facilità di accesso agli eventi, di contatto diretto interpersonale oltre le barriere spazio-temporali e di condivisione che strumenti mass-mediatici in costante evoluzione, espansione e semplificazione permettono è prodigiosa e benvenuta. Senonchè occorre mettersi in guardia da un suo uso degenere, che almeno in parte ha origine dall’induzione compulsiva all’aggiornamento.
(Mi) Aggiorno, dunque sono: controllo la posta in arrivo che ti pare che nessuno mi ha scritto nell'ultimo quarto d'ora, aggiorno la lista dei miei “amici”, aggiorno la home page del mio quotidiano per gli ultimi flash di agenzia, aggiorno il mio blog con una mezza ideuccia che mi è venuta che non mi pare male anche se non è granchè ma chissà che agli altri non piaccia e intanto dimostro che ho qualcosa da dire e mi faccio notare e poi se non la butto li di corsa finisce che me la scordo, sbircio di corsa i titoli dei post sul mio aggregatore per ridurre il totale dei non letti, mi aggiorno sullo stato dei miei “amici” anche se l’ho fatto appena un minuto fa ma intanto fammi vedere, non vedo l’ora di far sapere a tutti quello che è successo ieri e cosa ha detto quel tizio anche se non so chi sia però mi pareva carino condividere, e non sopporto di non essere interrotto da qualcuno con delle novità o che nessuno dei miei “amici” disponibili online mi contatti per qualcosa anche solo minimamente importante – così magari riesco anche oggi a crogiolarmi nella mia nullafacenza.

L’aggiornamento parossistico rischia di diventare autoreferenziale, l’aggiornasi fine a sè stesso, e di trivializzare l’attività intellettuale riducendonela portata ad un uso estensivo ed esclusivo della sola memoria a breve termine. Questo a sua volta banalizza l’impatto e la risonanza, specialmente interiore, di qualsiasi evento, mortificandone l’emivita nella preparazione all’accoglienza del prossimo evento - qualunque esso sia; e può indurre un abbassamento delle soglie soggettive di accettazione, e omologazione e indifferenza nella ricezione delle novità. Quando assume forme patologiche, l’aggiornarsi si estende ad occupare tutto il tempo disponibile, lasciando spesso ben misera ricompensa rispetto al senso di dissipazione e inanità che induce. Assomiglia ad un lasciarsi andare in balia degli eventi e delle correnti, un esporsi deliberato alla fluttuazioni benchè minime della “realtà”. E più l’accesso alla “realtà” è facilitato, più si può dare il caso di sentirsi in dovere di collegarsi in ascolto dell’ultimo sussulto, peto o rutto che soltanto dal loro essere ultimi in ordine di tempo traggono il loro valore.

Quando questo si combina narcisisticamente con il desiderio di far fronte efficientemente ad una quantità di informazione (potenzialmente) in ingresso crescente e multidirezionale, ne deriva una ristrutturazione delle modalità stesse di pensiero preoccupante, una revisione anche radicale che assomiglia a una regressione verso forme di ragionamento ancestrali, infantili nella loro scarsa articolazione, deficit di attenzione, soccombenza a istinti primordiali, assenza di profondità e prospettiva, e puntellata su concetti effimeri e idee soltanto abbozzate, magari in balia della moda o dell’ultimo parere stiracchiato di qualche autorità improvvisata. Così si perde la dedizione a ragionamenti lunghi e ascosi, la propensione all’introspezione, e a meditazioni pervicaci e sostenute nel tempo che dischiudono grandi tesori soggettivi e inalienabili, a passare in rivista esperienze passate e riferimenti culturali, per sedimentare informazioni, setacciarle, bruciarle, reinterpretarle e, quando lo meritino, finalmente incastonarle in un quadro più coerente ed entro orizzonti più vasti e comprensivi – è da questa pedissequa attività di integrazione che nasce la cultura personale. Al suo posto oggi viene proposto tanto rumore ideologico – quali edifici culturali costruireste su fondamenta tanto scricchiolanti?

La selettività, quantitativa e sopratutto qualitativa, deve tornare ad essere un valore fondamentale, antidoto al rumore, non fosse altro perchè negli ambienti che spesso ci circondano essa sarebbe nervosamente e fisiologicamente salutare.
Il rumore a larga banda generato dall’aggiornamento e patito nell’abbondonare la circospezione nel proporsi e aprirsi all’esteriore si fronteggia con filtri a banda stretta. Solo se ammessa attraverso le maglie della selezione una novità può essere riconosciuta come informazione utile, e l’informazione utile eventualmente aspirare ad essere promossa al livello di conoscenza.
Questi filtri si costruiscono conoscendosi: fissando le proprie priorità e aspirazioni, riconoscendo i propri gusti, affinità e passioni, e concentrandosi su di essi. Se ne guagagna innanzitutto in efficienza d'azione ed autostima. Occorre abbattere l’illusione di onnipotenza indotta dall’obliterazione delle barriere spazio-temporali, e domare la coazione allo sfruttamento e all’esplorazione degli spazi sconfinati così dischiusi, spesso giustificata soltanto dal fatto che ora sono accessibili: altrimenti si rischia facilmente di perdersi, di sentirsi (più) soli e angosciati, e di annichilirsi. E' anche auspicabile una distribuzione e coordinazione dell'attività di filtraggio entro i gruppi sociali o mass-mediatici che si frequentano, concedendo confidenza ad amici o professionisti a noi affini e di provata autorità.
Prendersi delle pause immersi nella propria intimità, mettere ordine nei propri pensieri con comodo e agio, sviluppare le proprie intuizioni criticamente e al riparo da influenze esterne – sono attività salutari di maturazione e fortificazione, personale e collettiva, messe a repentaglio dal rumore.

Dalla possibilità di essere interconnessi sempre ed ovunque non deve discendere la coazione ad esserlo.
Nella civiltà protesa ad magiam per technicam, sapersi disconnettere tenderà anzi a diventare un pregio, più difficile che connettersi, e forse segno di virtuosità.

Riferimenti:
B. Kosko, Noise, Viking Press, 2006.
F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo
spirito della musica
, Adelphi.

Collegamenti:
Massimo Mantellini interviene con cognizione di causa sull'argomento: "i cittadini informati saranno quelli che troveranno tempi e modi per filtrare il diluvio informativo che li raggiunge ogni giorno. [...] Dentro questo diluvio c’è anche la nuova funzione della stampa ai tempi di Internet di proporsi molto più come mediatore informativo e molto meno come produttore di notizie."
Peter Gomez converge sulla stessa linea (e di fronte all'ignobile "legge bavaglio" approntata dal presente governo italiano): "Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori."
Umberto Eco (nel contesto del fallibilismo scientifico) sostiene il filtraggio come parte essenziale dello sviluppo della cultura stessa : "[...] una cultura (intesa come sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi, eredità storica condivisi da un gruppo umano particolare) non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Vale per una cultura quello che vale per la nostra vita individuale."
Arthur C. Clark esprimeva già idee a riguardo: "The Information Age offers much to mankind, and I would like to think that we will rise to the challenges it presents. But it is vital to remember that information — in the sense of raw data — is not knowledge, that knowledge is not wisdom, and that wisdom is not foresight. But information is the first essential step to all of these." [da "Humanity will survive the information deluge"]