venerdì 30 aprile 2010

Questione di temperamento (La delusione dello spettro e lo spettro della delusione)


Tutto ha inizio da una delusione matematica.
Pari a quell’altra, più famosa ma meno tangibile, dell’impossibilità di esprimere il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato come rapporto tra due numeri interi. Già questa prima impossibilità mandò in depressione Pitagora – uno straganzo, per inciso – e incrinò la perfettibilità della sua visione numerica del mondo. Figuriamoci cosa gli prese quando si accorse dell’altro problemino, che per lui aveva risvolti addirittura sferico-planetari – un problema il cui spettro risuona, letteralmente, fino ad oggi.

Questo problemino si spiega facilmente con le corde (c’è chi ci ha provato con le camicie, con risultati scarsi), anche se dopo questo preludio pare quasi di parlarne a casa di un impiccato.

Allora: prendete una corda e fissatela rigidamente ai suoi due estremi (“Ma sembra una corda di chitarra!”: non sembra, lo è). Se la pizzicate, questa vibra (onde stazionarie) e così facendo emette un suono (fondamentale, supponiamo che sia per esempio la nota DO), la cui frequenza dipende inversamente dalla lunghezza della corda, e la cui intensità dipende da quanto forte l’avete pizzicata (il timbro dipende in maniera complicata da quello che sta intorno alla corda).
Lo straganzo di cui sopra si accorse (per primo, almeno idealmente) che se si blocca la corda nel suo punto medio (bisezione della corda), ciascuna delle due parti ottenute produce un suono di frequenza doppia rispetto alla fondamentale (prima armonica, o ottava, superiore) che ai nostri orecchi risulta come la “copia” della fondamentale (questo si spiega con un pò di fisiologia e di acustica, vedi Frova-1) ma più acuta di quella. E potete continuare ad libitum con le bisezioni, ottenendo ad ogni passo dai pezzi di corda dimezzati un suono di frequenza doppia rispetto al precedente (nel nostro caso, tutti i DO superiori che volete; anche se dopo i 20000 Hz e i 50 anni dovrete usare molta immaginazione per percepirli – ma al contempo capirete cosa provava Beethoven!).
L’istesso straganzo sembra si fosse anche reso conto che le cose fossero anche più gajarde di così. Infatti, se bloccate la corda libera a 2/3 partendo da un suo estremo (“dueterzizzazione”, se me lo consentite), scoprirete che la parte maggiore della corda così bloccata emette ora un suono di frequenza pari a 3/2 di quella originale (quinta giusta superiore, nel nostro caso un SOL), mentre l’altra parte (come indovinerete, a questo punto) un suono di frequenza doppia rispetto a quello della prima parte (essendone lungo la metà; quindi l’ottava superiore al SOL di prima). E anche qui potete proseguire nella dueterzizzazione della parte di corda già dueterzizzata, ottenendo una successione di note in rapporto frequenziale di 3/2 rispetto alle immediate precedenti. Esplicitando questa sequenza nel nostro caso: DO – SOL – RE – LA – MI – SI – FA# - DO# - SOL# - RE# - LA#(Sib) – FA – DO.
Toh guardate! Dopo esattamente 12 dueterzizzazioni ricompare un DO, e sta esattamente 7 ottave sopra al DO originale! Spettaculum visu! Armonia celeste! Pitagora straganzo planetario in excelsis!
Giusto?!
NO!
Perchè, matematicamente, 2^7 è diverso da (3/2)^12 !

Delusi? Scioccati?? Vi capisco, c’è da impazzirci, specialmente se non ci si era mai pensato prima...
E pensate a Pitagora, che ci aveva addirittura teorizzato l’armonia del sistema solare...

Il millenario problema del temperamento musicale sta tutto qui, e c’è poco da fare riguardo se non abbozzare e minimizzare (o rimuovere, come si fa nella stragrande maggioranza dei casi).
In sintesi, il problema deriva dal fatto che il punto di arrivo dell’algoritmo di bisezione non coincide con quello dell’algoritmo di dueterzizzazione, come invece a priori si sarebbe portati a pensare. L’illusione deriva anche dall’aver dato esattamente (ma convenzionalmente) lo stesso nome (a parte l’indicazione dell’ottava di appartenenza) a note che invece approssimano soltanto, e sempre peggio, il rapporto ideale che le dovrebbe legare alle originali.

“Ok! Ma in pratica, perchè questo è un problema?” vi starete giustamente chiedendo.
Ci sono diversi tipi di contrattempi connessi a questa fatale incongruenza. E rendersene conto richiede un certo sforzo per chi, come noi, è abituato ad ascoltare musica (praticamente tutta) che ha adottato una certa soluzione pratica a questo problema (che vi spiego tra poco) e l’ha ormai assiomatizzata. Ovvero, nell’impiegare un certo tipo di temperamento (che è la selezione delle note disponibili e la loro distribuzione nello spettro sonoro, che di per sè è una scelta arbitraria quanto convenzionale) piuttosto che un altro (tra i tantissimi escogitati), la musica (occidentale, soprattutto) ha prescelto anche l’intero insieme di intervalli e in definitiva di accordi (emissione simultanea di suoni) possibili. Questa scelta può avere motivi fisiologici e storici, ma è comunque ormai data per scontata: è il punto di partenza stesso della teoria musicale occidentale – come direbbe Schoenberg (originariamente a proposito dell’armonia tonale), è diventata per noi una seconda natura.

Il punto centrale è che, utilizzando l’accordatura dettata dalle regole geometriche introdotte da Pitagora e poi aggiornate da Tolomeo, Zarlino e da altri nel corso della storia - accordatura detta naturale - ogni tonalità è unica. Con unica intendo sia 1) che i rapporti tra le note successive all’interno della scala di ogni tonalità sono diversi da quelli di ogni altra; sia 2) (come conseguenza di 1), e per la fisiologia dell’apparato uditivo umano) che ogni tonalità ha un colore, un gusto, una qualità percettiva ben precisa e distinguibile – persino prevedibile, ed anzi ben presto catalogata dai compositori e sfruttata di conseguenza. Un pezzo bucolico pastorale? Vai col FA maggiore! Un pezzo grigio, triste ma maestoso? Niente di meglio (o peggio, diciamo) di un DO minore! Un Allelhuja gioioso, un pezzo eccitante e festoso? Come non usare il RE maggiore!
Questa unicità delle tonalità ha molte conseguenze, tra cui:
  1. la stereotipizzazione delle tonalità, che tuttavia rende l’ascolto meno impegnativo per l’ascoltatore medio, in quanto più prevedibile (e dunque gradito; Schoenberg sosteneva, più o meno, che gli ascoltatori accettano musica nuova, purchè sia vecchia);
  2. allo stesso tempo, alcune tonalità suonano malissimo e vengono sistematicamente boicottate per non provocare conati negli ascoltatori (nessuno si sognava di scrivere pezzi in LAb maggiore o MIb minore, per esempio);
  3. alcuni strumenti hanno delle accordature fisse, native per facilità di utilizzo, per cui suonano meglio nella tonalità nativa che non nelle altre; e questo è un problema sia negli assoli, sia nell’uso simultaneo con altri strumenti. Inoltre, negli strumenti a tastiera si giunse al punto di dover disporre di tastiere multiple per alloggiare tutti i suoni di cui si aveva bisogno (perchè, in sostanza, DO# è diverso (più acuto) di REb);
  4. per evitare cacofonie e intervalli azzardati (che poi diventeranno addirittura “vietati” in fase di cristallizzazione delle regole dell’armonia classica tonale), si tende a rifuggere dal cambiamento di tonalità (cioè dalla modulazione) nel corso di un singolo pezzo musicale; il che, specialmente nel Medioevo, era più che benaccetto: restare per tutta la durata di un brano entro la stessa tonalità era la norma (pensate al canto gregoriano, o ai brani di musica popolare) e rappresentava musicalmente la permanenza perpetua ed imposta degli individui sotto lo sguardo del dominatore e sotto il sistema di valori imposto dall’alto - un restare sempre comodamente a casa senza digressioni azzardate in territori sconosciuti. Al massimo ci si poteva allontanare dall’impianto tonale iniziale per poi tornaci alla fine, con grande effetto liberatorio nonostante fosse atteso se non obbligato. Altro che progressive; vedi Rattle).
Il secondo punto è che l’accordatura naturale sembra suonare “meglio”. Ce se ne può ancora rendere conto ascoltando cori a cappella di alto livello, la cui potenza sonora sembra pari a quella di eserciti interi nonostante i coristi siano pochi, ma proprio perchè risuonano perfettamente e indovinano accordature magnifiche.
Ovviamente qui si entra largamente nella zona del gusto e dell’abitudine; ma si capisce l’impatto che ogni proposta di cambiamento del temperamento e addirittura di adozione di uno standard doveva produrre sugli ascoltatori - al tempo anche più conservatori di ora.

Come detto, nel corso del tempo sono stati proposti centinaia di temperamenti diversi, ognuno dei quali concede importanza relativa maggiore ad un aspetto della problematica (per esempio, l’intonazione della terza maggiore e della quinta giusta) rispetto ad un altro (per esempio, la facilità di trasposizione). E qui non posso non citare il neo-pitagorico J. S. Bach, che compose la sua gran raccolta di 48 preludi e fughe per sponsorizzare un particolare temperamento, che funzionava bene secondo lui e per questo fu chiamato “bel temperamento” e che tuttavia non coincide con il temperamento in uso oggi (dei dettagli di questo bel temperamento non si ha traccia sicura). Un gesto storico perchè dimostrò platelamente quali scenari potesse dischiudere un temperamento opportuno.

E ad un certo punto si (ri)affermò una proposta semplice quanto efficacie: il temperamento equabile.
In sostanza, l’idea alla base è questa. Quale è il rapporto tra la frequenza di una nota e quella della sua ottava superiore? 2. Quante note vogliamo entro una ottava? 12 (scelta più comune). Bene, come facciamo a distribuire queste 12 note entro l’ottava nella maniera più equa ed egualitaria possibile (ovvero, come possiamo ripartire il fatele errore di cui sopra tra tutte le note, così che magari alla fine non si vede)? Semplice: moltiplichiamo la frequenza di ogni nota per la radice dodicesima di 2, ed assegnamo questo nuovo valore alla frequenza della nota successiva (questo funziona perchè lo spettro sonoro è distribuito secondo una scala esponenziale).
Ora, la cosa interessante è che questo artifizio funziona piuttosto bene anche nell’approssimare le accordature naturali di quasi tutte le note e allo stesso tempo, e per tutte le tonalità! E’ un bel colpo di fortuna.
Questa equalizzazione matematicamente esatta e acusticamente ragionevole è un intervento dal sapore democratico che, mentre le legittima tutte, annulla però la suddetta unicità percettiva delle tonalità. Ma allo stesso tempo, e soprattuto, permette l’accesso definitivo ad un artificio compositivo potentissimo, rinfrescante, catartico: la modulazione tra le tonalità. L’omologazione delle tonalità rese ogni tema musicale invariante rispetto al trasporto da una tonalità ad un altra, a parte l’altezza delle note effetive. Le melodie diventano effettivamente portatili.

L’accesso libero alla modulazione incrementò a dismisura la libertà dei compositori e il terrore degli ascoltatori, impauriti dalla prospettiva di tanta maleducazione e sconsideratezza. E allora, giù con trattati di teoria musicale apollinei e inderogabili, che cercano di imbrigliare e disciplinare questa libertà senza precedenti; e guai a voi se agli esami di armonia vi permettete una modulazione ai toni lontani senza almeno una nota in comune.
Ovviamente, e per fortuna, i compositori hanno sempre ragione rispetto ai teorici, fanno quello che gli pare e piace, e se ne fregano delle “regole” (e alla fine i teorici gli devono andare dietro!).
La modulazione nelle mani dei compositori più profondi ed innovatori permise di spaziare rapidamente e leggiadramente entro la geografia delle aree tonali.
E così la modulazione diventò l’arma più potente nell’aggressione ai confini del sistema tonale: derogando dall’ideale pitagorico, il temperamento equabile permise un progresso musicale senza precedenti. Ecco allora in successione Mozart lo sbruffone che gioca con le alterazioni, Beethoven il serissimo che serissimamente fa strabuzzare gli occhi per l’ardore agonistico delle sue sonate e dei suoi ultimi quartetti, Schubert che svolazza romanticamente tra le tonalità nell’intimità dei suoi quartetti, Debussy che accosta simulacri di accordi tonali solo in base al loro colore, Wagner che comincia a non capire più cosa sia la tonalità, Schoenberg che la sospende e poi inventa un algoritmo personalissimo (quanto poi copiatissimo, ed eretto addirittura a norma) per comporre pezzi – la dodecafonia, che astrae gli artifici classici di permutazione dei temi ma non contempla alcun concetto lontanamente echeggiante la tonalità.
Dopo Schoenberg, chi si azzardava a parlare tonale era considerato un principiante indecoroso. Ingiustamente, perchè “il DO maggiore ha ancora molto da dire” [un attimo che ci penso].

Detta così, può sembrare una bella storia appassionante come un romanzo appassionante, in cui opposte fazioni di progressisti e reazionari si scontrano in una battaglia fiera e rancorosa. Se volete vi lascio con questa illusione.
In realtà - sebbene ci siano molti eruditi che, anche a ragione, sostengano la necessità di un ritorno al temperamento naturale per apprezzare l’armonia primordiale (un esempio recente è questo) – occorre notare che la differenza percettiva tra temperamento equabile e naturale è molto piccola e, con buona pace dei fissati egomaniaci che se la tirano, piuttosto trascurabile (per esempio, confrontate gli estratti che trovate qui).
Personalmente sono molto a favore, quando possibile in base a tracce storiche attendibili, all’utilizzo dell’accordatura originale in base alla quale i compositori stessi hanno concepito i loro pezzi (in cui rientra anche l’utilizzo degli strumenti coevi).

Ma vorrei concludere con una osservazione che non appare in tutto l’annosissimo dibattito attorno al temperamento - nonostante sia, secondo me, cardinale. Ha a che fare con quello che la meccanica quantistica ha chiamato principio di indeterminazione, ma che più semplicemente, nonchè originariamente, è una proprietà intrinseca del suono, o meglio dei segnali (il celebre prodotto durata-banda minimizzato dai segnali gaussiani! la cui divulgazione si deve incidentalmente, tra gli altri, al buon vecchio Nyquist, lo stesso del teorema del campionamento) – o meglio ancora di ogni sistema lineare tempo-invariante (i cui domini reciproci - di cui le variabili coniugate della meccanica quantistica sono un esempio - sono legati dalla trasformata di Fourier; vedi Kosko).
E la cosa interessante è che, a quanto dice Frova-2, ne erano al corrente anche Newton e Bach.
Si tratta della relazione di reciprocità che lega la durata del suono alla sua specificità frequenziale. Torniamo alla nostra corda?
Bene, riprendetela e pizzicatela in modo che la sollecitazione sia la più breve possibile (per gli amici di Nyquist: approssimi una delta di Dirac). Otterrete una vibrazione più vicina ad un rumore che ad un suono ben definito. Se invece la sollecitazione è più lunga, il suono è ben riconoscibile.
Vale a dire, la definizione spettrale dei suoni (ovvero la loro accordatura!) dipende anche e imprescindibilmente da come il suono è emesso (transitorio di attacco e durata del suono): sollecitazione istantanea, spettro largo e rumoroso; sollecitazione lunga, spettro stretto e definito.
Una simile dispersione dello spettro sonoro delle note si applica in particolare agli strumenti pizzicati (chitarre e clavicembali) e, anche se meno, a quelli a corda percossa (pianoforti).
E più in generale, questa dispersione può essere tale da oscurare, ai fini pratici, ogni residua affermazione del secondo incubo pitagorico.

Riferimenti:
A. Frova - Armonia celeste e dodecafonia, BUR, 2006
A. Frova - Bravo Sebastian, Bompiani, 2007
A. Schoenberg - Manuale di armonia, Il Saggiatore
S. Rattle - Leaving Home
B. Kosko - Neural Networks and Fuzzy Systems, Prentice-Hall, 1991

2 commenti:

vincenzo pacelli ha detto...

Caro Mango, inutile dire che tutto ciò è interessantissimo. Me lo sono letto tutto d'un fiato... ma alla fine le mie comunque scarse nozioni in campo musicale non mi permettono di affrontare degnamente il discorso. Il 12 ritorna, di diritto, o per casualità?... Quando torni se ne potrà parlare per bene. Ciao

afirry ha detto...

Molto interessante, Max. Come sempre tracce di caos vincono anche sulle questioni di rigore logico, e gareggiando ad armi pari. Non è e non sarà mai un caso.