giovedì 15 dicembre 2011

Attori o spettatori

Forse la storia darà ragione a Montale, e finirà che la vita andrà così veloce che non resterà che segliere tra viverla o raccontarla.
Nel momento in cui ci soffermerà ad osservarlo il mondo sarà già avanzato, non sarà più lo stesso, e ci si troverà di colpo in affanno a rincorrerlo: nuove conoscenze saranno già state metabolizzate dopo aver rivoluzionato, ancora una volta e nostra sponte, le nostre percezioni ed aver esteso i confini del possibile, nuovi avvenimenti saranno già stati archiviati per ospitare i nuovissimi. 

Certo, sono millenni che il monito di Eraclito risuona nei nostri orecchi; ma tra poco bisognerà forse decidere, una volta per tutte, se farsi travolgere dalla corrente del fiume o restarne fuori ad osservarla. La scelta sarà tra una vita da spettatore e una da attore del proprio tempo – specie complementari destinate alla mutua incomunicabilità ed ad un’esistenza assoluta. O ci si ritirerà dal flusso difendendosi dai suoi continui fendenti mediante razionalizzazioni e testimonianze, o si parteciperà impulsivamente alla corsa previa astinenza dalla riflessione. Così Hegel si barricava dietro una ricostruzione ideale dell’epopea dello spirto guerriero ch’entro un tempo gli ruggiva – ma forse solo perchè non aveva avuto modo di provare l’estasi del trasporto.
I barbari, come li chiama Baricco, sospettano da anni che questo sia lo scenario che si sta preparando; ma questa anticipazione non li rende più pronti di altri alla scelta. Restano in superficie, si districano tra mille compiti simultanei, piccoli, brevi e di minima responsabilità, ma sono internamente rosi dall’ansia di perdere il passo, al punto da esitare ad escogitare un glorioso abbandono delle scene. Già la loro comunicazione è ridotta a cinguettio. I blog di opinione o speculazione (figurarsi giornali e riviste) sembrano vecchi e noiosi e restano deserti – specialmente se sono redatti da persone realmente prossime ai lettori e che persistono nonostante tutto a pensare autonomamente, alzando la testa e senza badare a restare nel coro (nel qual caso, l’originalita’ puo’ essere addirittura avversata dall’invidia e dai paragoni che i lettori fanno tra loro e gli autori; a meno che questi ultimi non siano o diventino poi famosi). L’affermazione personale si manifesta massimamente tramite la condivisione di contenuti, non con la loro creazione – perche’ inventare e’ molto piu’ difficile che copiare e incollare. Si preferisce aspettare che il paniere dei feed RSS si popoli dei contenuti di altri che descrivano una parte reale o ideale di noi, piuttosto che dedicarsi ad elaborazioni originali. I segnali di attivita’ e di interazione interpersonale si riducono a sfuggenti graffiti iscritti sui muri o sui flussi delle reti sociali. L’abbondanza delle cose alla cui fruizione si ha accesso è tale da distorcerne ed eroderne proporzionalmente il valore. E chi si affeziona agli effetti della quantità piuttosto che a quelli della qualità finisce con l’allentare le maglie dei propri filtri, ingenerando la prospettiva di un abbassamento generale dei livelli di sensibilità a ciò che è rilevante. Al contempo, il miglior modo per sperare che qualcosa resti impresso da qualche parte risulta pertanto condividerlo all’attenzione degli altri – evocando una sorta di memoria collettiva distribuita in cui l’individuo sa orientarsi solo osservando il riflesso delle proprie proiezioni. I fatti si scorgono, si valutano sommariamente e se ne trasmette nota rapidamente ad altri. Catturare l’attenzione conta piu’ che l’attenzione stessa. Il mondo specchio è pervaso da ondate di eccitazione polarizzata. Si spera che ad un certo punto, durante questo processo di rimbalzi e carambole che e’ la condivisione, qualcuno o qualcosa trasformi tali fatti in conoscenze ed eventualmente in cultura.
Lo spettatore finisce così per diventare l’attore principale della scena barbara: lo spettacolo è gestito prevalentemente da commentatori e testimoni, che si tramandano le gesta di una minoranza di creativi. Non si tratta ne’ di amanuensi ne’ di reporter, tuttavia, I barbari risolvono – forse inconsapevolmente – l’angoscia montaliana della scelta di ruolo con un tentativo di compromesso, in cui quella dicotomia tra produrre e riprodurre si annulla per identificazione.
Questo tipo di barbari lasceranno il posto ai barbari successori non prima che questa soluzione avrà cessato di valere. E ciò avverrà quando a testimoniare i tempi esplosivi a venire resteranno solo attori assorti nel loro genio creativo.

sabato 4 giugno 2011

L'atomo che fu

Ammettiamolo, l’energia da fissione nucleare ha alcuni vantaggi: fornisce una produzione di energia potenzialmente abbondante, e costante nel tempo (fino ad esaurimento scorte, perlomeno). E poi c’è che la sua immagine è associata ad un’idea di potenza, a quel trionfo dell’uomo sugli elementi così eccitante secondo il canone maschile.
L’atomo domato era anche sinonimo di modernità e di grande astuzia.
Un tempo.

Per quanto detto, si capirà che sono contrario all'energia da fissione nucleare (al “nucleare” secondo la vox populi). Sapete perchè?

  1. Non è una fonte di energia rinnovabile (le scorte di materiali fissili sono temporanee), dunque non rappresenta a priori una soluzione a lungo termine al fabbisogno energetico mondiale (tantomeno nazionale).
  2. I materiali fissili non sono distribuiti uniformemente sulla Terra, per cui il loro reperimento ed approvvigionamento sarà (se non lo è già) motivo di pesanti attriti tra nazioni, oltre che di profondi interventi sugli ecosistemi locali.
  3. Non è una fonte energetica pulita, producendo scorie radiattive ad emivita lunghissima in termini di generazioni umane per il cui trattamento e stoccaggio manca ancora oggi un metodo definitivo sicuro (esistono certamente delle proposte interessanti e/o esotiche di approccio al problema, che però apparentemente non sono contemplate dalla autorità concernenti), salvo finire in mano a terroristi o militari per i loro giochi di ruolo.
  4. Si basa su impianti centralizzati – 1, il cui malfunzionamento, comunque possibile (per guasto interno, eventi naturali, o attentati), produce danni ecologici tanto gravi e duraturi che non capisco perchè ancora me ne fate parlare (a meno che non siate Franco Battaglia o Chicco Testa).
  5. Si basa su impianti centralizzati – 2, normalmente costruiti e/o controllati da società per azioni che non possono compensare gli enormi investimenti richiesti dalle infrastrutture (impianti, messa in sicurezza e reti di distribuzione), fatti salvi i profitti, se non gravando sul costo dell’energia per gli utenti e, ove possibile, accedendo ad aiuti statali (che ricadono infine sugli utenti).
  6. Si basa su impianti centralizzati – 3, dove la rete di distribuzione è intrinsecamente e fatalmente vulnerabile al malfunzionamento del singolo nodo di produzione, con grande gioia di possibili sabotatori.
  7. La messa in opera degli impianti di produzione richiede (allo stato attuale) molti anni, un tempo abbastanza lungo affinchè l'esponenziale progresso nei metodi di produzione energetica alternativi renderà la soluzione nucleare vetustissima (essendo già vetusta).
  8. E' assai verosimile che la dislocazione delle ingentissime risorse finanziarie verso gli impianti nucleari distolga al contempo finanziamenti, incentivi e attenzione (pubblici e privati) dallo sviluppo delle energie alternative nonchè al citato, importantissimo intervento di ottimizzazione dell’efficienza energetica delle strutture già esistenti – attività in cui investimenti della stessa entità possono produrre a mio parere risultati di gran lunga più sostanziali e duraturi.
In più, limitatamente all’Italia: a) non esiste un territorio intrinsecamente sicuro per la costruzione degli impianti (ammesso e non concesso che ne esista uno nell'intero globo), b) non c’è una Regione disposta a concedere parte del suo territorio agli impianti, c) è inverosimile che simili investimenti non vedano l’interesse e l'infiltrazione della malavita organizzata (cosa che già avviene, tuttavia, anche con gli impianti eolici).

Grazie per esprimere il tuo voto al prossimo referendum. Comunque, ma particolarmente se voterai (4 volte) SI.

Più che l'energia, il suo utilizzo

La miglior fonte di energia è il risparmio. Un tempo la campagna pubblicitaria di Enel suonava così: un messaggio chiaro e semplice, dalle implicazioni molto ramificate e promettenti, insomma del tutto attuale.
Agli smemorati propongo quanto segue. Supponete di disporre di una grande condotta d’acqua con grandi perdite lungo il suo percorso: come interverreste, se voleste aumentare la quantità di acqua che giunge a destinazione? La soluzione più semplice ma a lungo termine più inefficiente e dannosa sarebbe aumentare la portata d’acqua, pompando più acqua all’origine. Una soluzione molto migliore sarebbe invece quella di individuare e arginare le perdite della condotta, e solo in seguito valutare la disponibilità di acqua alla destinazione prima di proporre delle eventuali iniezioni. Se all’acqua si sostituisce l’energia, alla condotta le attuali reti di distribuzione e alle perdite la scarsa efficienza degli isolamenti termici, dei motori e degli impianti di produzione si ha un quadro per quanto semplificato della situzione energetica attuale.

La priorità energetica della nostra società non deve essere quella di disporre di più energia, bensì di fare un uso più oculato di quella di cui già si dispone: economizzarne l’uso, a partire dalle attività quotidiane, e farne un uso più efficiente. La rinormalizzazione del fabbisogno energetico e l’ottimizzazione dell’efficienza di utilizzo dell’energia rappresentano delle necessità a priori, indipendentemente dalle sorgenti di energia utilizzate. Solo sulla base di un sostanziale miglioramento dell’efficienza energetica delle strutture di cui disponiamo è possibile valutare realisticamente la necessità pratica di energia della società. Il rischio, altrimenti, è di immettere in circolazione un eccesso di energia che poi, a causa per l’appunto delle alte dissipazioni, si disperda direttamente nell’ambiente – contribuendo in modo sostanziale all’innalzamento della temperatura globale. Questo problema è, per me, serio al punto da moderare persino il mio entusiasmo per le sorgenti di energia rinnovabili, qualora non vengano anch’esse usate in maniera ben controllata. Non si tratta di un rischio da sottovalutare: disporre di energia gratuita a volontà potrebbe dare facilmente alla testa.
La maggior parte dell’energia in circolazione viene attualmente impiegata e sprecata per i riscaldamenti degli edifici e nei trasporti urbani, particolarmente automobilistici – mentre in un prossimo futuro l’alimentazione e il raffreddamento dei server informatici potrebbe diventare (altrettanto) rilevante. Allo stato attuale, le citate rappresentano delle vie di dissipazione di energia nell’ambiente molto nocive in quanto pressochè dirette. Una grande quantità di interventi sono possibili in questi ambiti per migliorare sostanzialmente le efficienze energetiche: ad esempio, coibentazione e passivizzazione degli edifici (i cui effetti si avvertono sia durante le stagioni fredde che calde), riciclaggio delle risorse (acqua e beni materiali di consumo), utilizzo dei trasporti pubblici, car sharing. Si tratta di comportamenti ed interventi capillari e locali, di cui si deve incaricare in primo luogo ove possibile l’iniziativa individuale di ciascun cittadino, sperabilmente coadiuvata da incentivi statali. Qui può evidenziarsi un forte ostacolo, dovuto alla cultura di un popolo nel caso non sia abituato od indotto a simili comportamenti. In molti casi, si tratta in effetti di cambiamenti strutturali nelle abitudini quotidiane, di fronte a cui si scatenanto delle facili resistenze (“Si, ma coibentare l’appartamento costa assai!”, “Quanto era più semplice la raccolta indifferenziata!”) o superficiali scetticismi (“Sai quanto ci vorrebbe per coibentare tutti gli edifici di una nazione?”), entrambi miopi dei vantaggi a lungo termine e della dimensione effettiva dello sforzo. In molti casi, gli utenti tendono ad aspettarsi innanzitutto direttive ed aiuti dall’alto – in assenza dei quali si sentono giustificati a non impegnarsi – piuttosto che iniziare autonomanente ad adoperarsi con interventi mirati e alla portata di tutti. Chiaramente, le cose sarebbero molto diverse e nettamente più facili se nei rotocalchi e telegiornali si parlasse quotidianamente di tecniche di risparmio energetico piuttosto che di cronaca nera o gossip: ad esempio, immaginate che effetto si avrebbe avuto se si fosse parlato della costruzione fai-da-te di impianti solari tanto quanto del famigerato delitto di Cogne, con la stessa cadenza e attentione.
Se ciò non bastasse, nel frattempo scegliere l’energia da fonti rinnovabili sta rapidamente diventando economicamente conveniente, come dimostra l’imminente pareggio tra costo di energia elettrica da fonti tradizionali e da solare su ampia scala, con prospettive di ulteriore e costante ribasso per la seconda rispetto alla prima.
Rimane poi il problema dell’efficienza della (rete di) distribuzione primaria dell’energia (elettrica), di cui si deve incaricare in primo luogo il gestore. Ma anche in questo contesto, gli utenti possono esercitare un certo peso, tendendo a preferire una produzione dell’energia distribuita e locale piuttosto che globale e centralizzata – scelta direttamente collegata a quella delle fonti stesse.

Non c’è dubbio che le fonti di energia del futuro siano quelle rinnovabili. Oltre a risultare essenzialmente inesauribili ed ad avere un impatto ambientale minore rispetto alle tradizionali (cioè fossili e fissili), esse hanno il grande vantaggio di essere in buona parte distribuite uniformemente sul territorio, specialmente quando usate in maniera combinata nella stessa reti di distribuzione locale. I punti di produzione possono pertanto essere ad accesso locale o persino individuali (come nel caso degli impianti solari fotovoltaici o a concentrazione sul tetto di casa vostra), con enorme riduzione sia dei costi e delle dissipazioni associate al trasporto di energia, sia della vulnerabilità stessa della rete di distribuzione, grazie alla moltiplicazione dei nodi di produzione e alla ridistribuzione del surplus di produzione dei singoli nodi. Tale nuova organizzazione energetica emerge ed incorpora una prospettiva di dislocazione e condivisione delle risorse che è contestuale al paradigma della rete.
Di fonti di energia rinnovabili ne esistono tante, e il numero delle declinazioni in costante aumento. Oltre alle più note (solare nelle sue varie declinazioni, eolico terrestre, geotermico, idroelettrico, energie da biomasse), è il caso di menzionare l’energia oceanica (fornita dalla trasduzione piezoelettrica movimento incessante delle masse d’acqua dei mari, su cui punta ad esempio l’Irlanda), l’eolico ad alta quota (con enorme produzione di energia da venti costanti), ed ovviamente la sorgente energetica ideale: le reazioni nucleari a bassa energia (LENR). Altrettanto importante è notare che molte di queste fonti siano costanti durante l’arco giornaliero (come i venti ad alta quota, il movimento dei mari, il gradiente geotermico, LENR), e la maggior parte di esse può produrre energia nei frangenti di massima richiesta (tipicamente non di notte).
Altro dato di fatto assai rilevante è rappresentato, in aggiunta ai vantaggi gia' elencati, dal mero potenziale economico delle energie rinnovabili, in termini di ritorno degli investimenti e potenziale occupazionale. Ciò è dovuto alla condizione quasi pristina del mercato. Dunque, se è vero che a molti imprenditori preme innanzitutto il guadagno a prescindere dal modo in cui viene conseguito, perchè non puntare sulle rinnovabili, che rappresentano un campo di investimento ottimo.

E poi, non sarà mica che questo presunto imperativo ad avere più energia disponibile abbia una grossa componente commerciale, finanziaria e/o ideologica? Chi l’ha detto che bisogna sempre consumare, e sempre di più? E per fare cosa?
Non vi pare invece più appagante riuscire a fare lo stesso o di più utilizzando meno risorse?

mercoledì 1 giugno 2011

Se il navigatore di dati usa l'istinto

Nella misura in cui la quantità di dati che si affacciano ai nostri sensi aumenta, mentre non aumenta - spesso per buoni motivi - il tempo che alla loro cernita destiniamo, la velocità di fruizione deve conseguentemente aumentare se si vuole tenere il passo con gli eventi che, volenti o nolenti, apparentemente ci riguardano. Come già osservato, questo induce superficialità nella cognizione e nella recezione dei fatti, stereotipizzazione di opinioni ed argomentazioni, e connessa procrastinazione degli approfondimenti più completi. Se non bastasse, la velocità di (catalog)azione – che si impone quale carattere dominante e richiesto nell’addomesticazione dei dati – ha delle assonanze significative, e tende a risvegliare e privilegiare, modi di pensare ed agire che sono strutturalmente codificati nel nostro retaggio evolutivo sotto forma di sbilanciamenti, sequenze di comportamento pre-programmate e modalità di scelta e risoluzione delle ambiguità non strettamente razionali (di cui l’economia comportamentale si occupa ormai da decenni, nonostante la refrattarietà del paradigma razionalista).
Come risultato di ciò, sospetto che, messo di fronte ai mezzi tecnologici che si fanno forieri di tale flusso ininterrotto (ma interrompibile) di dati da scandagliare, il nostro encefalo venga spinto a destreggiarsi anche regredendo più e più verso forme di funzionamento ancestrali, dettate in origine dall’istinto di sopravvivenza. Nel catalogare rapidamente e reagire istintivamente ai dati, tendiamo ad usare schemi mentali atavici non sempre razionali (sebbene non per questo necessariamente erronei) che bypassano facilmente le strutture neocorticali, ovvero le più recenti e, forse, più adatte alla pianificazione a lungo termine ed all'elusione di trappole gratuite quanto insospettate. Il mezzo messaggero stesso ci farebbe guardare al mondo con occhi più vecchi, più viscerali e meno adatti di quanto sarebbe possibilmente richiesto.
Questa deriva ci renderebbe meno razionali (da non intendersi nel senso di meno soggetti alle censure del super-ego), più suscettibili, e più manipolabili da parte di chi questi meccanismi ben conosce e sa polarizzare. Ma probabilmente, se questa organizzazione tecnologica proseguirà, le nuove generazioni saranno equipaggiate con schemi neurali diversi dai nostri, più adatti a sostenere il diluvio di dati che la società produrrà.

lunedì 30 maggio 2011

Anelli causali

Penso che, perlomeno a livello di dinamica psicologica, quelli che qui chiamo anelli causali siano così ubiqui, e presenti nell’esperienza di così tante persone, che meritino di essere discussi esplicitamente.
Penso che (almeno a livello psicologico) si tenda ad introdurre delle relazioni causali tra due entità (A e B) che, in base alla direzione del vincolo, vengono definite come causa ed effetto (B, che avviene a causa di A). L’eventuale isomorfismo con un dato oggettivo e reale del legame causale instanziato non è rilevante in questo contesto (non fosse altro perchè è difficile giustificare qualcosa come oggettivo a livello psicologico). Ciò che è importante secondo me è piuttosto che l’unidirezionalità della relazione causale – ammesso che il legame stesso esista – è, nella maggior parte dei casi, una forzatura o il risultato di una visione parziale e non bilanciata della dinamica psichica – una sorta di censura, insomma. Perchè molto spesso (se non quasi sempre) invertendo il ruolo della suddetta causa con quello del suddetto effetto (chiamando B causa di A) si stabilisce un contro-legame causale che, sebbene con iniziale sorpresa, ha senso ed anzi mette in luce aspetti irrisolti o insospettati della situazione. Dopo simili rivelazioni, non si può più legittimamente assegnare univocamente i ruoli di causa ed effetto; è più corretto affermare, piuttosto, che A e B sono coinvolti in un anello causale, in cui ciascun ente è a sua volta causa ed effetto dell’altro. Insomma, io sostengo che se tra due entità psichiche si è stabilito un legate causale, esso è molto più spesso bigettivo di quanto non sia soltanto iniettivo. I due enti sono inclusi in un abbraccio circolare, un anello di reazione positiva in cui ciascuno produce l’altro e a sua volta ne risulta esaltato.
Come si installa un anello causale? Penso che in esso si possa entrare seguendo, per motivi congiunturali, uno qualsiasi dei legami causali, e questo è sufficiente ad innescare la dinamica del feedback. Senonchè, con il passare del tempo è facile scordarsi di tale direzione o motivo di ingresso, così che la sola cosa che rimane in mente è l’anello causale in sè, che si autosostiene indefinitamente.
Pare che già Ippocrate ritenesse come errore fatale per una corretta cura lo scambio tra sintomo e causa della malattia. E, da quanto comprendo, pare che anche in psicanalisi si tenda ad interpretare l’institenza manifesta nel sostenere come veritiero uno solo dei rami causali che formano l’anello (per esempio, “Sono solo perchè non ho amici”) come un interessante indizio di (auto)censura. Nel qual caso, proporre al soggetto di percorrere l’anello nel senso inverso al solito (“Non ho amici perchè sono un solitario”), per quanto sconcertante possa apparire, può aiutare a superare dei blocchi o a guadagnare intuizioni salutari.
Fin qui la situazione psichica. Si potrebbe poi speculare se questa dinamica psichica abbia un corrispettivo nella realtà fisica esterna – anche ammettendo che ciò non si esaurisca nel principio di azione e reazione – ovvero se ad ogni legame causale introdotto (“ammesso e non concesso che esista” direbbe Hume) ne corrisponda uno nella direzione opposta. Sembrerebbe una congettura interessante, e rilevante nella misura in cui le reti e le loro fenomenologie non lineari e piene di anelli di reazione tendono a pervadere la realtà quotidiana; tuttavia probabilmente falsa nel caso generale, se è vero che grafi orientati permettono operazioni di inferenza più generali di quelli non orientati.

martedì 15 marzo 2011

Come per gioco

Una parte significativa della popolazione percepisce oggi la realtà attraverso le tecnologie, massimamente quelle computazionali e telecomunicative. Ma, a priori inaspettatamente, i contenuti trasmessi e i modi in cui vengono formattati e veicolati dalle stesse tecnologie sono a crescente impatto e contenuto emotivo. Per cui, sebbene quella in cui viviamo sia una realtà ubiquamente pervasa da strumenti tecnologici frutto di razionalità applicata, essa viene percepita e vissuta in maniera sempre più emotiva. Ragione ed emozione si trovano così a competere di fronte alle decisioni, con risultati spesso spiazzanti.
Delle notizie si legge a mala pena il titolo, o si presta più attenzione alle immagini che al testo (eventualmente parlato), così da poter vagliare la maggior quantità di novità possibile. I media e le strade delle città sono dominati dalla pubblicità, in cui il prodotto originale con le sue effettive caratteristiche è completamente scomparso e proiettato in una dimensione alternativa e ideale, sostituito da invenzioni vistose, trovate accattivanti, accostamenti provocanti e motti evocativi. La propaganda politica non si basa più su programmi operativi fondati sulla comprensione dei problemi attuali nella prospettiva di una loro soluzione sostanziale, ma su retoriche immaginifiche che parlano agli istinti dell’elettorato e sono condite da raffinate tecniche di manipolazione.
A ben guardare, molto di questo rivolgimento vede la prevalenza dell’immagine (più in generale, del concreto e del tangibile) sul linguaggio (l’astratto e non quantificabile). A livello di elaborazione cerebrale, è noto che i segni (e quindi le immagini) sono prioritarie sul linguaggio (da cui l’adagio di Goethe, secondo cui il linguaggio è stato dato all’uomo per nascondere i suoi pensieri); esse vengono cioè elaborate prima del linguaggio, in zone del cervello più profonde e antiche. Questo spiega l’impatto emotivo, forse inconscio di alcune immagini (tra cui i cosiddetti archetipi), e il loro ancestrale impiego in ogni ambito dell'attività umana (dalle metafore letterarie ai simbolismi settari). Ma porta anche a pensare che la massiccia ristrutturazione della comunicazione moderna attorno alle immagini possa indurre una diffusa regressione a strutture di pensiero primitive, o se si preferisce infantili. Strutture con le quali ci troveremmo a gestire tecnologie prodigiose ma delicate e, in non pochi casi, potenzialmente pericolose.
Prendete l’iPad - lo cito solo perchè eclatante; troverete facilmente molti altri esempi attorno a voi. Tanto ingegno tecnologico dietro un oggetto elegante e semplicissimo da usare: non solo un unico tasto fisico, ma soprattuto uno schermo per immagini nitidissime. E, ovunque, icone. Immagini colorate, divertenti, palesi e curiose che esprimono chiaramente la funzione cui permettono di accedere bypassando completamente la loro menzione esplicita in forma linguistica. Un leggero tocco e via, il gioco inizia e potrebbe continuare ad libitum a furia di tocchetti qua e la, minuscoli gesti che danno facile accesso a funzionalità di grande complessità tecnologica ed algoritmica. Massimo effetto con il minimo impegno o con la minima percezione dello sforzo celato: esattamente ciò che fa la più grande gioia dei bambini.