martedì 21 settembre 2010

Sulla teoria ultima - parte 2: necessità


Mentre si lascia lo scenario aperto ad ogni possibile evenienza riguardo alla possibilità di esistenza di una teoria ultima, qui si intende rispondere negativamente all'interrogativo sulla sua necessità.
Ritenere che una teoria ultima non sia necessaria può sembrare paradossale di primo acchitto: in fondo la scienza - e, più in generale, la conoscenza - è mossa dalla ricerca della spiegazione ultima del mondo, così come lo è (stata) l’attività quotidiana degli scienziati e di ogni sapiente di ogni tempo.
Io sostengo tuttavia che, lungi dall’essere contraddittoria, una (cono)sc(i)enza consapevole della non-necessità di una teoria ultima possa essere metodologicamente più efficiente e coerente con il suo ideale di perfettibilità - pur a rischio di risultare più fragile rispetto alla accezione che la associa ad una missione con scopo predeterminato.
Sia chiaro: la non-necessità di una teoria ultima non ne esclude l’eventuale esistenza nè l’eventuale conoscibilità. Quello che ritengo necessario è piuttosto il divenire continuo e permanente del percorso conoscitivo (soggettivo ed individuale, e poi collettivo), non la sua fine. Attendendo serenamente e con favore di essere smentito dal venire a conoscenza della dottrina ultima, tendo intanto a pensare che ogni teoria (corretta) proposta sia un traguardo temporaneo, e il cui grado di perfezione o ultimità percepita sia proporzionale al costo (intellettuale e/o finanziario) che la teoria ha richiesto per essere sviluppata o che una sua successiva sostituzione imporrebbe.
Questa posizione è certamente improntata allo scetticismo, tuttavia nella forma e accezione del dubbio metodologico perenne (che porta a estreme conseguenze), e non certo in quella di un pessimismo negli intenti, nelle risorse e nelle capacità delle imprese conoscitive (di qualunque tipo). Del resto, nel divulgare questa mia personale visione, non la sto certamente imponendo, ma sto altresì rifuggendo dall’invito socratico a neppure mettere per iscritto qualsiasi idea, al fine di evitare a priori la tentazione a cristallizzarla. Piuttosto, concordo con l’osservazione che il cammino della conoscenza è punteggiato di carcasse abbandonate lungo la strada.
Ho l’impressione che la perfezione (nel senso di compimento definitivo) attribuita a una teoria verrà sempre da qualcuno ritenuta transeunte e meritoria di essere valicata - più sintomo di stasi, di pigrizia se non di morte intellettuale che ontologica – e ammantata di arroganza intellettuale, anche a prescindere dalla (necessaria) dimostrazione sperimentale / empirica / fenomenologica. Una teoria ritenuta perfetta sarà sempre sospettata da qualcuno di essere il risultato almeno parziale di una adequatio rei ad mentem piuttosto che una completa adequatio mentis ad rem. Al contempo, l’autore della teoria sarà sospettato di essersi arreso ad un certo qual punto (pur eccelso), vuoi per amore estetico della sua teoria (viene da pensare ad Einstein), vuoi per il desiderio di metterci un punto e di godersela nel riflesso altrui, vuoi forse per il potersi dire di essere giunto (magari in fin di vita) a qualche cosa di non nullo, o chissà per cos’altro. Insomma, per tutti questi e forse per altri motivi, penso che qualcuno non sarà mai indotto a smettere di cercare di demolire la supposta teoria definitva del momento per far posto ad una nuova e migliore – sebbene la ragione più profonda di questo incessante intento sarà probabilmente soggettiva e psicologica.
Perchè il percorso conoscitivo, e la comprensione del suo valore e della sua necessità, sono (e forse rimarranno) conquiste individuali imprescindibili. Ciò che le alimenta è la sensazione di divenire e di ascesa che le accompagna, la tendenza all’accrescimento e alla maturazione – di fronte a cui l’idea della terminazione è ostica se non priva di senso.
Similmente, non credo sia utile cristallizzare nè tantomeno imporre una qualsiasi dottrina (sebbene già Plank osservasse, e Kuhn spiegasse, che le teorie e i paradigmi si succedono come le generazioni, cioè sulla base della morte degli esponenti delle precedenti). Piuttosto, quando una teoria è affiorata nella sua supposta coerenza e completezza, ci si deve limitare a proporla e criticarla, a renderla disponibile ad altri come suggerimento non vincolante e possibile tramite (tra i tanti) verso una eventuale illuminazione individuale; e non, invasati dalla rivelazione, farne mezzo di plagio forzato (specialmente se di massa, come nel caso dei profeti e le corrispettive religioni). Si pensi, per questo, alla differenza tra Gesù (reale o fittizio) e Paolo di Tarso. Forse è per questo che (per quanto ne so) quasi nessuno dei grandi saggi di ogni tempo ha mai imposto le sue vedute (nell’esempio di prima, fu Paolo ad imporre il cristianesimo, non Gesù), con l’eminente eccezione parziale di Marx (e dei suoi epigoni), che di fatti incarna pregi e difetti della dialettica tra teoria e praxis – delle ripercussioni materiali e rivoluzionarie di strutture di pensiero ideali.
Del resto l’uomo sinottico - di cui parlava Platone nel suo mito della caverna - una volta presa visione (personale) della realtà supposta vera, torna nella caverna ed illustra la sua visione agli altri. Nel limitarsi ad illustrare e nel non costringere, egli lascia intatta la libertà altrui, premessa dell’integrità e dell’autenticità del loro cammino.

Sulla teoria ultima - parte 1: possibilità


In ambito fisico, dal secondo dopoguerra in poi - a partire forse dall’attenzione riservatavi nei suoi ultimi anni di ricerca da Einstein - si succedono speranze, invocazioni o veri e propri annunci del ritrovamento di teorie del tutto, che nella accezione dei fisici dovrebbero dischiudere l’onniscenza sull’intero mondo fisico all’uomo. Senonchè queste teorie riguardano soltanto le particelle elementari. Dunque si basano su assunti di riduzionismo e materialismo estremi: conoscendo le leggi ultime che disciplinano le proprietà di e le interazioni tra le particelle elementari, sarà data automaticamente la conoscenza del mondo fisico nella sua interezza di dimensioni – perchè le particelle elementari spiegano la fisica tutta, la fisica spiega la chimica, la chimica spiega la biologia, la biologia spiega l’ecologia, e proseguendo questa spirale ascendente di sapore vagamente hegeliano si espanderebbe a includere ogni aspetto dell’esistente.
Può anche darsi che sia così. Tuttabia, tale programma di ricerca, emblematico della big science – che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso si fonda sul Modello Standard, e sembra (da poco tempo dopo) essersi ingolfato nei funambolismi e avviluppamenti matemagici della teoria delle superstringhe – potrebbe essere messo in difficoltà da altre discipline scientifiche; per esempio, da quell’insieme eterogeneo e sinergico di concetti e metodologie collettivamente chiamato (scienza della) complessità, che dimostra ormai da tempo come anche sistemi apparentemente semplici di enti interagenti posso dar vita a fenomeni a priori imprevedibili e di grande contenuto informativo. D’altra parte, per rispondere all’interrogativo di sopra qualcuno potrebbe anche citare (probabilmente a sproposito) i teoremi di incompletezza di Gödel e di indecidibilità di Turing; oppure Hawking, che dedicò all’argomento la seconda parte della sua lezione (Nascita del tempo e fine della fisica) di insediamento sulla cattedra di Cambridge che fu di Newton, nonchè la conclusione del suo Dal big bang ai buchi neri. In quest’ultimo (libro divulgativo), egli prende in considerazione tre scenari possibili per la teoria del tutto: la teoria non esiste e la scienza prosegue ignara di brancolare nel buoi; la teoria esiste e gli umani si avvicinano asintoticamente alla sua conoscenza; la teoria esiste e gli umani la scoprono (e si suppone che la comprendano), nel qual caso non resterebbe che definirne i dettagli e poi semplicemente vivere, sapendo di essere entrati nella mens dei (si spera spinoziano, vale a dire sive natura) – e, si potrebbe aggiungere ora, dedicandosi finalmente (solo) al lato construens (o, con termine abusato, olistico) della scienza. Roba forte la terza via, ma contraddistinta da una certa connotazione di tristezza - che forse è semplicemente intrinseca all’idea di terminazione dell’impresa scientifica (riduzionista) e di fine in sè – e di già visto.
Si, perchè questo non deve ingannare: la fine della fisica è stata anch’essa ripetutamente predetta e sancita nel corso degli ultimi decenni, a partire da un secolo prima della lezione di Hawking. Era infatti sentimento comune e palese alla fine del XIX secolo che in fisica non mancasse da fare altro che definire la quinta o sesta cifra decimale delle grandezze già note. Tutto sembrava già fatto, spiegato, compreso, evidente, a posto. Ma si trattava, di un’illusione imbarazzante, perchè da li a poco dovevano figurare Roentgen con i suoi raggi X, Becquerel con le sue lastre fotogragiche impressionate al buio, Plank con il suo quanto di azione, Nernst con il ruolo attivo e non-locale del vuoto, i fratelli Wright con i loro (veli)voli impossibili, Einstein con le sue relatività, i già citati Gödel e Turing con le loro risposte negative ai rispettivi quesiti di Hilbert, Fermi con le sue pile atomiche, Feynmann con la QED e Gell-Mann con la QCD, Lorenz con il suo attrattore strano, Salam e Weinberg con l’unificazione elettrodebole, Preparata e Del Giudice con la QED coerente – e solo per citarne alcuni!
Per quanto detto, viene da pensare che oggi la situazione possa essere un ricorso di quanto già occorso – sebbene entro condizioni al contorno inevitabilmente diverse. In particolare, oggi non domina più l’atteggiamento positivista di Comte e Mach, in voga alla fine dell’800 e di per sè autolimitante nei confronti del progresso della scienza oltre i confini dei sensi umani – e che infatti fu eluso ben presto da tutti, sulla tragica scia di Boltzmann. Al contempo, la big science è sempre più onerosa; alcuni scienziati sono diventati miti intoccabili, e le loro teorie approcciate con reverenza quasi dogmatica o fideistica; e in alcuni ambiti si avverte un certo conservatorismo e fazionismo di ascendenza extra-scientifica. Ad accomunare le due epoche è però la superstizione di un certo integro-fondamentalismo di matrice religiosa, ancora ignorantemente shockato dalla sconfinata recessione del posto e del ruolo dell’uomo nell’universo, e geloso dei progressi scientifici che insidiano le sue derelitte teorie – oh si, i fondamentalisti religiosi si, che possiedono (e da quanto tempo!) la conoscenza definitiva!
Tuttavia, il tempo sta accelerando, sempre più.

venerdì 17 settembre 2010

L'arte della sensualità


Si sente spesso parlare di sensualità dell’arte. Riflettendoci, penso che ciò celi una sorprendente discriminazione. Ma anche che ci sia un sempiterno esempio.
Tutte le arti si rivolgono a un numero limitato di sensi, e comunque non li soddisfano certamente tutti allo stesso modo. Tutte si rivolgono, in un modo o nell’altro, alla mente, ma si concentrano su e sono veicolate massimamente da vista e udito. La cucina, certamente una forma artistica di chimica, si occupa del gusto.
E per il resto? Chi si dedica all’olfatto e al tatto?
E’ vero, si da il caso di concerti in cui essenze diverse venissero dissolte nell’aria in corrispondenza di opportuni brani (mi dicono che l’abbia fatto perlomeno Jovanotti). E certo entrare in profumeria, sniffare colla o benzina, o maneggiare compost organici può fornire soddisfazioni erotiche o regalare piaceri anche intensi. Ma cosa fare per il tatto?
Bisognerebbe forse chiedere a chi legge in Braille cosa si aspetta per opera d’arte ideale? O andare a tastare tutte le tele del mondo per scoprire il pittore che aveva il tocco migliore? O pompare gli amplificatori sempre al massimo per essere scapigliati e cappottati dalle casse degli impianti di diffusione?
Io guarderei più vicino. E penso che l’arte sensualmente più completa ed appagante sia: il sesso.
Visioni, auscultazioni fruscii ansimi grida, odori, gusti, palpatine massaggi strusci sfregamenti baci; geometrica complementarietà e compenetrazione dei corpi; armonia di forme e di ritmi; coinvolgimento e sconvolgimento di segreti e secrezioni.
Roba da dio.

giovedì 16 settembre 2010

Leggerezza fondata


Preludio:
leggendo le sue Lezioni Americane, si ha quasi la sensazione che li Calvino abbia finalmente svelato l’armamentario di impalcature, strutture, tecniche e metodi accumulati nel suo artigianato, e dato l’idea di quanto lavoro abbia richieduto raggiungere la leggerezza (di cui parla in una celebre di quelle lezioni) che si manifesta nel suo stile letterario. Perchè Calvino si prendeva sul serio.

La leggerezza nella sua forma più sciatta e sterile si compone di pura superficialità, sradicata e fragile. La leggerezza è invece molto più interessante e rivelatrice quando scaturisce dalla convinzione di sè e nei propri mezzi. Con semplice bisticcio, bisogna saper leggere la leggerezza.
L’adozione sistematica ed imprescindibile di uno stile di scrittura perentorio, assolut(istic)o, necessario ed universale, e pertanto di solito pesante, saturante e ostico, che non lascia nulla all’immaginazione o all’interazione del lettore, bensì la costringe inappellabilmente entro strutture anguste di una rigidità parossistica – questa scelta, per l’appunto, rivela probabilmente un desiderio di proporre a se stessi una disciplina vincolante ed egemone, con l’augurio che essa aiuti a mascherare, confortare e consolare irrequietezza, instabilità, inquietudine, scarsa convinzione ed insoddisfazione di fondo. Di fronte a simili gabbie autoimposte si ha l’impressione di assistere ad un tentativo di far fronte alla dissoluzione o al deliquio della personalità, persa tra timori e conflittualità.
La stabile sicurezza conseguente al raggiungimento della convinzione in sè (in una parola, la maturità) permettono un ritorno alla leggerezza dello stile e degli atteggiamenti più in generale, ora riempiti di confidenza e fondati su basi più solide, per quanto e ancora in divenire. Questa leggerezza coesiste, interagisce e si alimenta con la consapevolezza d’ignoranza personale, la curiosità e il dubbio metodologico. Abbandonata la coazione all’oppressione, si preferisce alludere ed indicare soltanto, senza curarsi di otturare tutti gli spazi – e non perchè si abbia paura di non saperlo fare. Si possono finalmente accantonare e riscattare quelle angoscie e vergogne che, se pure sussistenti, dovrebbero essere materia di lavoro personale, ma che invece venivano proiettate sul destinatario nell’intento spasmodico di celarle. Con la leggerezza trasformativa di cui parliamo si possono far sedimentare tutti quei fardelli – si possono lasciare sul fondo per tenere ancorato il nostro bel aquilone.

Leggere con cautela


Non si deve leggere indiscriminatamente!
Anche se morsi dalla curiosità o dalla lussuria, così facendo si rischia di leggere le cose (giuste o sbagliate che siano) al momento sbagliato.
E questo non è consigliabile, perchè si potrebbero scoprire le soluzioni a dei quesiti (pratici o intellettuali, fisici o metafisici) che magari si sarebbe prima dovuto - o quantomeno voluto - risolvere da soli, senza aiuti. Ed anche perchè si potrebbe, altrettanto pericolosamente, essere indotti a credere che quelle soluzioni siano le uniche o le migliori (cosa non raramente falsa), e con questo a credere che non valga più la pena porsi quelle domande, tanto tutto è stato già detto e fatto (illusione devastante!). Ed infine, perchè si rischia di aver accesso alla formulazione stessa di quesiti per i quali non si è ancora pronti (perchè non si è in grado di comprenderne la rilevanza o di porli nella prospettiva o nel contesto più adatti, o perchè la nostra personale catena di ragionamenti ed interessi non ci ha portato in quelle zone del paesaggio mentale). L’avanzamento della personale ricerca intellettuale dovrebbe essere graduale e disciplinata, mossa eminentemente dalle percezioni individuali (di sè, del momento e del contesto).
Questo per quanto riguarda la saggistica, compresa la letteratura impegnata. Altro discorso, coerente col precedente, vale per la letteratura non impegnata di puro intrattenimento (con rispetto parlando), che in questo ambito associerei per analogia alla mollica del pane, o al sorbetto che si gusta durante i grandi pasti per separare le varie portate principali.
In questo caso, mangiare senza criterio e in quantità eccessiva rispetto alle proprie necessità e addirittura oltre le proprie possibilità, soltanto per inerzia o per non restare senza far nulla (cioè, fuor di metafora, senza avere nulla per la testa), è un comportamento ozioso e pigro, che sazia di tutto fino a saturare il desiderio e al contempo impedisce di gustare e assimilare le singole vivande come meriterebbero. Imbottirsi soltanto di mollica o di sorbetti rende sazi di poca sostanza. Si dovrebbe invece preferire una assunzione moderata e strategica di mollica e sorbetti, allo scopo di intervallare le porzioni principali del pasto (intellettuale) e coadiuvarne la corretta digestione e assimilazione.
Anche qui, serve un buon filtro.

mercoledì 15 settembre 2010

Colui che fece girare le sfere


Con la scoperta di quello che poi sarebbe stato chiamato primo principio della dinamica, Galileo iniziò a far girare le sfere. Secondo codesto principio, un corpo (celestre o terrestre che sia) persiste nel suo stato di moto finchè una causa esterna non interviene a modificare tale stato. Questo significa (con tripudio eracliteo, e molto prima che ciò venisse riscoperto e sottolineato dalla meccanica quantistica, in un contesto completamente diverso) che lo stato di quiete di un corpo non è necessariamente il suo stato naturale: la quiete è un caso speciale di moto un corpo, ovvero un moto con velocità (e accelerazione) nulla – un’eccezione, più che la regola. Questo spazzava via millenni di legge aristotelica, peraltro in una maniera piuttosto contorta (perchè l’empirismo e il materialismo dei lavori galileiani era considerato di ascendenza aristotelica; senonchè poi Galileo giunse alla sua conclusione attraverso un ragionamento asintotico (non riuscendo a eliminare praticamente tutto l’attrito nei suoi esperimenti) che lo fece sfociare in un ambito meta-fisico, più prerogativa del platonismo).
E fece gagliardamente girare le sfere - in senso cosmologico e figurato.
In senso cosmologico, il principio confutava di per sè, in sostanza, la necessità stessa di un etterno motore primo immobile, ovvero di quella sfera celeste esterna alle altre e sede del sommo manovratore, la quale, sebbene supposta immobile (per tradizione oserei dire parmenidea), purtuttavia innescava causalmente il moto delle sfere interne a cui erano appesi i pianeti rotanti attorno alla Terra.
Questo sconvolgimento della scenografia celeste costituiva allo stesso tempo un gran giramento di sfere per l’ortodossia cattolica egemone al tempo, che faceva della dimostrazione tommasea (di matrice ancora aristotelica) ex motu uno dei cardini dell’esistenza del suddetto manovratore. Quella lesta dimostrazione - e per estensione tutte le altre ad essa somiglianti tramite inversione (vedi la ex fine) o altre simmetrie - veniva dal nostro tacitamente privata di fondamento. E ciò avveniva ancora prima che tutte queste dimostrazioncine venissero letteralmente annichilite dalla confutazione humiana del principio stesso di causalità.
Su questa base clamorosa si può aggiungere quel che è più noto - e che fu formalmente punito dal porporato (non di vergogna, ahimè) Bellarmino – e cioè che poi quell’eversivo di Galileo appoggiò di peso la teoria eliocentrica (nonostante fosse anche un buon astrologo!), presentata da Copernico e già avallata da Keplero. Ma mentre il (sapientissimo ed esoterico) Keplero era considerato certamente un ganzo ma sui generis (sapete, lavorava a Praga per Rodolfo II, il re invasato per l’alchimia, insomma non si poteva prendere molto sul serio ecco...), il consenso di Galileo all’astronomo polacco fu problematico. Innanzitutto, era geograficamente più vicino; poi, era cattolico (quanto Keplero e tutti gli altri, del resto); e soprattutto, dava inizio a quella che è stata definita a posteriori la rivoluzione kepleriana della scienza. Essa si basa sul seguente, temibile assunto: se un modello matematico si dimostra capace di descrivere con precisione un fenomeno naturale, allora esso rappresenta una legge che pertiene de facto alla natura, cui cioè la natura stessa obbedisce. Ovvero, se un tale modello esiste, esso di per sè deve essere ontologicamente vero. Mentre la rivoluzione copernicana fu eminentemente cosmologica (e sarà emulata da Kant secoli dopo in campo gnoseologico), quella kepleriana fu filosofica prima che metodologica. Con essa si attribuiva valore di verità fondamentale e sostanziale alle scoperte empiriche, e divenne un caposaldo della nascente Scienza in senso moderno.
Si può sospettare che questo impietoso spodestamento del nos diximus a favore di una costante e progressiva sostituzione di modelli vigenti e perfettibili, assunti al livello di leggi temporanee di natura, sia stato l’elemento dell’attività di Galileo filosoficamente meno tollerabile da parte dei teologi cattolici. Che ancora sognano di tornare all’epoca in cui la loro esclusiva loggia dettava legge.

Il salto e la fase pseudo-construens


Da Socrate (e forse anche da prima) fino a Hillman - passando per Spinoza e innumerevoli altri liberi indagatori, e accompagnati da buona parte della tradizione massonica non deviata (di cui si può trovare una soprendente apologia nell’ultimo romanzo di Dan Brown) - risuona il sempiterno richiamo (una sorta di filosofia perenne, per parafrasare Huxley) a conoscere se stessi (know ye not that ye are god) come condizione imprescindibile di ogni percorso di maturazione individuale e di accesso ai poteri latenti del corpo umano. Un percorso tradizionalmente articolato in una fase destruens ed una successiva fase construens.
Ritengo tuttavia che l’innesco di questa dinamica interiore presupponga un precedente salto da parte dell’individuo – una intuizione, una illuminazione spoliativa, una comprensione pur breve ma impressionante del sè nudo e auto-sufficiente - che mostri in un baleno il percorso a venire e ne illustri la necessità. Questo salto individuale è un moto di emancipazione, preludio a una rigenerazione - scaturito dalla realizzazione che finora si è partecipato a una costruzione della propria personalità fittizia, probabilmente fallace o arbitraria, perchè avvenuta in buona parte a propria insaputa, passivamente, e non coerentemente con il nucleo fondante e motore della persona. Si tratta di un salto, perchè esso muove, forse per la prima volta, tutto l’individuo nella sua consapevole interezza; perchè presuppone una rivisitazione e se necessario un abbandono della propria esperienza passata; e, soprattutto, perchè non può, con ogni probabilità, essere impartito o insegnato dall’esterno, ma spunta spontaneamente e in forma esclusiva dall’interno. E’ il salto che mette fine a quella che, per questo, chiamo la fase pseudo-construens.
Questo balzo permette di prendere distacco dagli insegnamenti ricevuti, e di comprendere che si da una esistenza autonoma e indipendente anche, o soprattutto, a prescindere da essi. Contestualmente, si afferra la salutare necessità di criticare (in senso kantiano) l’insieme eterogeneo di dottrine, pre-concetti e automatismi di cui siamo stati dotati e che abbiamo ricevuto - culturalmente o geneticamente – in modo involontario, passivo e acritico. Questo ammasso di pre-giudizi va setacciato e vagliato scientemente – confermato perchè con ogni probabilità si è stagliato finora a separare l’individuo dal suo nucleo fondante. Tale sondaggio interiore – un esercizio progressivo, disciplinato e permanente, ed esclusivo del singolo individuo così come il suo esito specifico - costituisce la successiva fase destruens – dove tanta parte può svolgere l’ironia. Con essa si arriva a comprendere che l’eredità più duratura e preziosa del nugolo di materiali assunti in passato risiede, soprattutto, nella rete coerente ed auto-sufficiente di strutture, relazioni, dinamiche e pattern - spesso soltanto implicite, intuitive ma evidenti, piuttosto che esplicite, codificate e cristallizate – che l’individuo con la sua sensibilità ha afferrato tra le righe, che all’individuo affiorano dopo lenta maturazione e assimilazione. E forse non c’è altro modo attraverso cui questo possa avvenire – se non una illuminazione personale.
Il superamento della fase pseudo-construens si innesca con la presa consapevolezza di come quei materiali iniziali e lontani siano serviti soltanto da pretesto, introduzione, cavallo di Troia, lasciapassare o forse scusa per veicolare - senza che sia rigettata nel contempo – quella eredità di cui l’individuo si trova ora a disporre; e di come l’utilizzo effettivo ed indipendente di questa conoscenza – un tesoro inviolabile ed inalienabile - si possa attuare a prescindere da loro.
Solo sulla base di questa opera igienizzante e purificatrice si può e si deve poi cominciare ad erigere ed innalzare – spontaneamente e liberamente, cioè secondo gli autentici dettami della nostra natura ritrovata. Solo a questo punto si potrà parlare di vera fase construens.

Migliaia di (per)s(on)aggi prima di me (e incomparabilmente più evoluti) hanno trasmesso questo semplice messaggio – sebbene esso, per l’appunto, non sia comprensibile se non attraverso esperienze interiori, uniche ed esclusive, e dunque non indottrinabili dall’esterno (ecco una chiave dei paradossi della tradizione buddhista). A minima riprova (ammesso che lo abbia capito veramente), anche a chi scrive sono occorsi 28 anni per arrivarci.
Questo evidentemente non deve far desistere dal tentare di trasmettere il messaggio. E personalmente, sarebbe stato preziosissimo se lungo la mia strada giovanile avessi incontrato qualcuno che si fosse prestato o degnato a instillarmi almeno il sentore e il dubbio di queste cose. Sto contestualmente invocando, in compagnia per esempio di Nietzsche, l’importanza cruciale della giusta educazione al giusto momento. Un’istruzione solamente nozionistica è deleteria, perchè rischia di ingenerare dogmatismo e atrofizzare lo spirito critico. L’istruzione dovrebbe essere invece soprattutto seminale. Non credo di andare lontano dal bersaglio nell’affermare che i maestri ideali, o quelli che ci segnano e ci rimangono più impressi, sono quelli che riescono a spingerci, in qualche maniera, verso il nostro nucleo fondante. E’ già meraviglioso poterli avvicinare per mezzo delle loro opere scritte – figurarsi in vivo.