mercoledì 15 settembre 2010
Il salto e la fase pseudo-construens
Da Socrate (e forse anche da prima) fino a Hillman - passando per Spinoza e innumerevoli altri liberi indagatori, e accompagnati da buona parte della tradizione massonica non deviata (di cui si può trovare una soprendente apologia nell’ultimo romanzo di Dan Brown) - risuona il sempiterno richiamo (una sorta di filosofia perenne, per parafrasare Huxley) a conoscere se stessi (know ye not that ye are god) come condizione imprescindibile di ogni percorso di maturazione individuale e di accesso ai poteri latenti del corpo umano. Un percorso tradizionalmente articolato in una fase destruens ed una successiva fase construens.
Ritengo tuttavia che l’innesco di questa dinamica interiore presupponga un precedente salto da parte dell’individuo – una intuizione, una illuminazione spoliativa, una comprensione pur breve ma impressionante del sè nudo e auto-sufficiente - che mostri in un baleno il percorso a venire e ne illustri la necessità. Questo salto individuale è un moto di emancipazione, preludio a una rigenerazione - scaturito dalla realizzazione che finora si è partecipato a una costruzione della propria personalità fittizia, probabilmente fallace o arbitraria, perchè avvenuta in buona parte a propria insaputa, passivamente, e non coerentemente con il nucleo fondante e motore della persona. Si tratta di un salto, perchè esso muove, forse per la prima volta, tutto l’individuo nella sua consapevole interezza; perchè presuppone una rivisitazione e se necessario un abbandono della propria esperienza passata; e, soprattutto, perchè non può, con ogni probabilità, essere impartito o insegnato dall’esterno, ma spunta spontaneamente e in forma esclusiva dall’interno. E’ il salto che mette fine a quella che, per questo, chiamo la fase pseudo-construens.
Questo balzo permette di prendere distacco dagli insegnamenti ricevuti, e di comprendere che si da una esistenza autonoma e indipendente anche, o soprattutto, a prescindere da essi. Contestualmente, si afferra la salutare necessità di criticare (in senso kantiano) l’insieme eterogeneo di dottrine, pre-concetti e automatismi di cui siamo stati dotati e che abbiamo ricevuto - culturalmente o geneticamente – in modo involontario, passivo e acritico. Questo ammasso di pre-giudizi va setacciato e vagliato scientemente – confermato perchè con ogni probabilità si è stagliato finora a separare l’individuo dal suo nucleo fondante. Tale sondaggio interiore – un esercizio progressivo, disciplinato e permanente, ed esclusivo del singolo individuo così come il suo esito specifico - costituisce la successiva fase destruens – dove tanta parte può svolgere l’ironia. Con essa si arriva a comprendere che l’eredità più duratura e preziosa del nugolo di materiali assunti in passato risiede, soprattutto, nella rete coerente ed auto-sufficiente di strutture, relazioni, dinamiche e pattern - spesso soltanto implicite, intuitive ma evidenti, piuttosto che esplicite, codificate e cristallizate – che l’individuo con la sua sensibilità ha afferrato tra le righe, che all’individuo affiorano dopo lenta maturazione e assimilazione. E forse non c’è altro modo attraverso cui questo possa avvenire – se non una illuminazione personale.
Il superamento della fase pseudo-construens si innesca con la presa consapevolezza di come quei materiali iniziali e lontani siano serviti soltanto da pretesto, introduzione, cavallo di Troia, lasciapassare o forse scusa per veicolare - senza che sia rigettata nel contempo – quella eredità di cui l’individuo si trova ora a disporre; e di come l’utilizzo effettivo ed indipendente di questa conoscenza – un tesoro inviolabile ed inalienabile - si possa attuare a prescindere da loro.
Solo sulla base di questa opera igienizzante e purificatrice si può e si deve poi cominciare ad erigere ed innalzare – spontaneamente e liberamente, cioè secondo gli autentici dettami della nostra natura ritrovata. Solo a questo punto si potrà parlare di vera fase construens.
Migliaia di (per)s(on)aggi prima di me (e incomparabilmente più evoluti) hanno trasmesso questo semplice messaggio – sebbene esso, per l’appunto, non sia comprensibile se non attraverso esperienze interiori, uniche ed esclusive, e dunque non indottrinabili dall’esterno (ecco una chiave dei paradossi della tradizione buddhista). A minima riprova (ammesso che lo abbia capito veramente), anche a chi scrive sono occorsi 28 anni per arrivarci.
Questo evidentemente non deve far desistere dal tentare di trasmettere il messaggio. E personalmente, sarebbe stato preziosissimo se lungo la mia strada giovanile avessi incontrato qualcuno che si fosse prestato o degnato a instillarmi almeno il sentore e il dubbio di queste cose. Sto contestualmente invocando, in compagnia per esempio di Nietzsche, l’importanza cruciale della giusta educazione al giusto momento. Un’istruzione solamente nozionistica è deleteria, perchè rischia di ingenerare dogmatismo e atrofizzare lo spirito critico. L’istruzione dovrebbe essere invece soprattutto seminale. Non credo di andare lontano dal bersaglio nell’affermare che i maestri ideali, o quelli che ci segnano e ci rimangono più impressi, sono quelli che riescono a spingerci, in qualche maniera, verso il nostro nucleo fondante. E’ già meraviglioso poterli avvicinare per mezzo delle loro opere scritte – figurarsi in vivo.
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2 commenti:
Io la vedo un po' con un problema di urban sprawl della persona. Le 3 fasi corrisponderebbero a: I. Abbandonare le sovrastrutture, scendendone le scale piano per piano. II. Osservare il palazzo che implode con un ghigno ironico. III: sbracciarsi e ricostruire.
Mi pare una analogia interessante. Se dunque usiamo questa, si mette fine alla fase pseudo-construens quando si avverte l'esistenza stessa della sovrastruttura - di questa fase, noi siamo terminatori, mentre delle altre siamo gli autori. Oserei dire che molte persone forse non escono nemmeno dalla fase pseudo-construens.
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